Tema in classe terza liceo classico, appena qualche giorno dopo l’uccisione di Osama bin Laden da parte dei soldati americani. Il docente propone, tra altri argomenti, il testo (in inglese) dell’annuncio del presidente Usa Barack Obama, preceduto da questo titolo: Retorica presidenziale: analisi linguistica del discorso di Obama. Lo svolgimento di Giulia Mariniello, 16 anni, Liceo classico “Don Gnocchi”, Carate Brianza, Monza.
Nel silenzio della White House risuona con forza il ticchettio dell’orologio a pendolo. Le lancette si muovono freneticamente verso la loro meta: sono le 11.35. Velocemente si accende una luce, là nella finestra più alta di Washington e del mondo; si innestano le ultime preparazioni; il ragno può finalmente iniziare a tessere la sua tela.
La scelta dell’ora non è casuale: le 11.35, è ormai mezzanotte, l’inizio di un nuovo giorno, di una nuova era. È una sottointesa “captatio benevolentiae” che nell’oratoria latina e greca era il cuore dell’exordium, estremamente elaborato, ornamentato con l’unico fine di instaurare un legame quasi simpatetico con il pubblico, alienato. Questa volta semplici numeri sono sufficienti per soppesare il valore di questo momento, così breve, così importante. Segue coerentemente la narratio, l’esposizione lineare dell’accaduto, espressa dal verbo to report che nel suo più profondo significato indica descrivere parola per parola, riportare ciò che altri hanno detto, compiuto e di cui si è unicamente spettatori. Allo stesso tempo è un accaduto a tal punto significativo che non si potrebbe non riportarlo (canè un modale che indica la possibility, ma soprattutto la capability) al pubblico (the american people and to the world) con cui l’oratore tenta di entrare in rapporto grazie al continuo spostamento tra la prima persona (I) e la terza persona (the american people and to the world).
Si perpetrano allora, secondo un gioco di ossimori, di contrapposizioni in climax ascendente, le azioni distruttive del nemico, assunte come giustificazione giusta per la sua stessa destruction, ultima parola e allo stesso tempo fulcro di questa prima parte dell’intervento (murder in contrapposizione con innocent; brightcon to dark, ulteriormente accentuato dall’agent by the worst attackricade con le sue intere conseguenze sulla storia del popolo americano, tanto che le immagini dell’11 settembre sono seared, ossia rimangono fisse, stabili, inamovibili nella mente).
Estremamente acuta è l’elaborazione linguistica per la descrizione degli attacchi che vengono espressi, in variatio rispetto agli altri tempi verbali, da due forme implicite (collapsing, billowing up) che movimentano il testo ed esprimono la drammaticità della narrazione che conduce solo a heartbreak, che nella lingua latina si definirebbe come un neologismo, composto dal sostantivo heart, frantumato dal verbo to break. Una frantumazione del cuore che chiude ad anello l’argumentatio successiva (gaping hole in our hearts) accentuata dagli exempla ancora nuovamente worstcosì come worst era l’attacco all’America l’11 settembre, ancora sentito, vivo nell’oggi (espresso dall’avverbio nearly che si traduce come “quasi” ma che deriva dalla preposition near, “vicino”).
Tuttavia ancora sopravvive il seme della speranza che può permettere di alzare il volto e reagire eroicamente (così come già nella prima parte dell’intervento vi era heroic citizens). Una reazione che si traduce nell’unirsi insieme (insistente è united), nel trovare ciascuno nell’altro consolazione (came together) e aiuto (offered). È un non cadere nella disperazione caratterizzato da una forza straordinaria, così come è forte l’insistenza sul pronome our che pone il definitivo suggello del legame ormai instaurato tra oratore e pubblico. Una reazione deve necessariamente concretizzarsi in azioni decisive (great strides) che hanno portato a concentrare tutto l’impegno con una triplice azione (- to disrupt, to dismantle, to defeat – organizzate secondo un tricolon, antica forma espressiva della lingua latina, in crescendo e creata sulla base dell’allitterazione insistente sull’intero discorso) che ancora è volta a una destruction, espressa non più in termini devastanti come nel caso di Bin Laden ma in termini più costruttivi espressa da to disrupt, “smantellare” ciò che è inquinante (come dirà successivamente attraverso scores) e necessariamente da uccidere (make the killing).
Al nemico si risponde con la medesima arma lacerante, forse più tagliente, perché mossa dal tentativo di vendicare il sangue innocente. Tuttavia come giustificazione quasi meccanica (so) viene addotto il tentativo di proteggere l’intero mondo (to protect our citizens, our friends and our allies). La parola allenta ciò che è in realtà messo in atto per sconfiggere il nemico. Se le azioni intraprese sono efficaci (great) è inevitabile che abbiano comportato un’immane fatica (painstaking) che spesso si è fatta portatrice di dubbi (far from certain), di incertezze ripetute (repeatdly) che non hanno impedito il successo tanto agognato (espresso con un leggero sibilo da finally).
Questo aspetto rivela l’impianto su cui si costruisce tale discorso e l’intero intento della retorica: persuadere, arrivare ad alienare il pubblico a cui si rivela solo ciò che pone in buona luce – come emerge dalla descrizione dell’intervento americano in Pakistan condotto eroicamente da pochi (a small team) caratterizzati da grande coraggio (extraordinary courage) e che non hanno provocato alcun danno (avoid civilian casualties) -, che favorisce l’azione intrapresa dall’oratore, tralasciando gli aspetti negativi, erronei della spedizione intrapresa. Inevitabile è la funzione apologetica, celebrativa di chi redige il discorso e le operazioni (at my direction) che vengono infatti definite come targed, termine che indica una sorta di marchio impresso sull’azione, firmata dall’eroe che riporta “the most significant achievement to date in our nation’s effort to defeat Al-Qaeda”.
La parola nella sua elaborazione più alta, coerente, perfetta è in realtà distorta dal volere di chi la conduce, diventa veicolo di parzialità tanto perfetta quanto ingannevole. È una parola perfetta perché in tutto il discorso vi è un continuo rincorrersi di figure retoriche (evidente è la ripresa ad anello di targetedconto marknella parte conclusiva del discorso) insistenti, tutte volte ad indicare la giustizia della guerra intrapresa (perché condotta da “who believe in peace and human dignity”) e che non è stata scelta (the american people did not choose the fight; it came to our shores) ma che doveva (must) essere condotta.
Questo già emerge numerosi secoli prima in Cesare, nel De Bello Gallico, nel momento in cui (Capitolo VII, Libro IV) l’ambasceria dei nemici Germani giustifica la propria invasione della Gallia osservando come: “Germanios neque priores populo romano bellum inferre neque tamen recusare, si lacessantur, quin armis contendant”. A sua volta Cesare giustificava anche le proprie azioni efferate perché condotte non solo per preservare l’integrità territoriale di Roma minacciata costantemente (the Usa) ma soprattutto per difendere gli alleati Galli (in primo luogo il Pakistan a cui viene riconosciuto il merito di aver collaborato; merito che è sminuito dall’impegno dello stesso Pakistan di accogliere Bin Laden).
The President non introduce nulla di nuovo, è strettamente in continuità con la logica del potere dell’antichità, ancora attuale. Come Cesare considerava le ingiurie rivolte contro gli alleati come rivolte contro egli stesso, così tutte le fatiche nel condurre le operazioni dell’esercito americano sono assunte innanzitutto dall’oratore in prima persona (these efforts weigh on me every time).
Senza un coinvolgimento emotivo dell’oratore stesso non sarebbe possibile il successo dell’oratio, come insegna Cicerone. Successo che doveva essere suggellato dalla peroratio, nuovamente elaborata grandemente, tesa ad ottenere il flectere, l’alienazione completa dell’uditorio. In questo caso la peroratio è costruita su una serie martellante di ringraziamenti (dato da give thanks), di ricordi rivolti alle vittime del nemico sconfitto (we have never forgotten your loss) e, secondo ancora la costruzione ad anello, antica strategia narratologica omerica, di riferimenti a quel senso di unità che costituisce l’essenza degli Stati Uniti stessi, manifestatasi l’11 settembre. Il vero fulcro della peroratio sono le ultime parole in cui viene sintetizzato l’intero orgoglio di un paese (greatness of our country) e della sua vocazione (determination of the American people; our commitment to stand up for our values abroad, and our sacrifes to make the world a safer place), ossia essere destinato ad essere una grande nazione, completamente dedito a lottare in tutto il mondo per l’affermazione della libertà (liberty) e della giustizia (justice), essendo one nation, under God, indivisible.
La cornice dell’intervento è chiuso da una formula rituale, ripetuta meccanicamente, benedizione che abbraccia l’immenso paese, lungo le praterie, le coste oceaniche, tra la fatica e il dolore quotidiano: “May God bless you. May God bless the United States of America”. God riempie l’intera ultima riga, pronunciata con estrema forza alla fine di un intervento che intreccia solo la distruzione, il conseguente attacco difensivo portatore solo di altri mali; si conclude con God ossia con l’affermazione, forse incosciente, delineata da tale formula rituale, dell’unica fonte di speranza e di salvezza nel devasto.
Il microfono si spegne, le ultime luci svaniscono e ancora tutto è circondato dal buio. L’orologio scocca l’ora tanto agognata: la mezzanotte risuona, rimbomba nelle stanze semivuote ricche della gloriosa history tanto celebrata; minacciosa lo raggiunge. Ancora una volta tutto è avvolto nel buio solo gli occhi socchiusi, vigilanti, splendono.
(Giulia Mariniello)