Luca Serianni nel 2009 ha compiuto uno studio su un campione di temi svolti da studenti di prima superiore. Le riflessioni di Serianni sono confluite nel libro Scritti sui banchi (2011), realizzato insieme a Giuseppe Benedetti. Poiché non c’è modo di supporre che gli studenti dal 2009 a oggi siano molto cambiati, ilsussidiario.net gli ha chiesto di approfondire l’argomento, anche in vista del vicinissimo esame di stato, e della temuta prima prova, attesa con tanta trepidazione.



Professore, quali impressioni ha ricavato dai temi di prima superiore esaminati?

Quei temi di prima superiore presentavano tratti tipici dell’italiano scolastico, così com’era stato descritto negli anni 70 in celebri interventi di Tullio De Mauro: una lingua in cui si evitano le parole comuni, rifugiandosi in un italiano burocratico, quasi che questo fosse un italiano di grana più raffinata. Non c’è motivo di credere che a pochi anni di distanza il quadro sia mutato.



Italiano burocratico, dice. Può fare un esempio?

È quello in cui non si dice «fare i conti» ma «eseguirli», non «andare in vacanza» ma «trascorrere le vacanze», non «andare» ma «recarsi» in un luogo, e così via. All’inizio della scuola superiore si danno spesso temi che ricadono nel vissuto degli alunni: la classica lettera a un coetaneo su un certo argomento, per citarne uno. Ma nel momento in cui si chiede ad un adolescente di fare l’adolescente, cioè di scrivere come parlerebbe, vedere un italiano così artefatto stride in modo ancor più forte. Tutto questo poi si combina col fatto che il livello medio non è esaltante, nemmeno per quanto riguarda il possesso di elementi fondamentali, a cominciare dalla solita ortografia.



Ci vuole un cambiamento di rotta?

Sarebbe opportuno che i temi di prima superiore non si preoccupassero minimamente dei toni alti, ma semplicemente del funzionamento del discorso. Quello che invece trovo molto importante, e al tempo stesso trascurato, è la cosiddetta coerenza testuale.

Coerente, cioè ben costruito?

La coerenza è la tenuta del senso comune. Le faccio due esempi che mi sono rimasti impressi: in un tema di una ragazza si parlava dei rapporti tra maschi e femmine, e si diceva più o meno questo: a noi ragazze piacciono le coccole, i maschi invece «cercano di dare il meglio di loro stessi ma non ci riescono». È chiaro che non c’è un rapporto logico tra questi due segmenti della frase, pur così elementare. Diverso sarebbe stato scrivere: «…i maschi, invece, sono ancora dei bambinoni». In un altro tema, un allievo di un istituto tecnico passava in rassegna ad uno ad uno i compagni. Ad un certo punto scriveva: «Salvatore è molto piccolo ma molto simpatico». L’insegnante aveva cancellato il secondo «molto», ma non è evidentemente importante la ripetizione in questo caso: è invece assurdo dire che una persona è piccola di statura ed è o non è simpatica.

Cosa dovrebbero farei docenti?

Direi gerarchizzare gli interventi; certi elementi sono più importanti di altri. Il problema centrale è quello della coerenza, cioè della tenuta logica del discorso anche a livelli elementari.

Dove si dirige invece, preferenzialmente, l’attenzione degli insegnanti?

Un elemento che balza agli occhi è la repressione del registro colloquiale, che dev’essere controllato quando si sta parlando di temi generali, argomentativi, ma non a questi livelli più elementari e spontanei. Si insiste troppo sulla repressione della ripetizione, che non è un deficit così grave. Bisognerebbe dare la priorità, come dicevo, alla tenuta complessiva, per esempio all’inizio e alla conclusione: il tema, comunque configurato, dovrebbe essere un discorso che ha una sua sequenza, così come ce l’ha a livelli più alti un articolo di giornale. Su questo i temi sono in difetto, un po’ perché i ragazzi non fanno una scaletta, un po’ perché sono presi dalla paura della pagina bianca e cominciano subito a scrivere, dimenticando che in un qualunque discorso scritto la struttura è fondamentale.

Non è che spesso alla riconsegna dei compiti, le correzioni di un insegnante passino inosservate?

La correzione del tema è indubbiamente uno dei compiti più difficili per un insegnante. Bisogna costringere il ragazzo a ritornare su quello che ha scritto, a riscriverlo, a rendersi conto del perché qualcosa non funziona. Detto questo, nei temi realmente carenti non è mai solo un aspetto a non funzionare – solo l’ortografia, solo la sintassi, solo la coerenza testuale – ma molti aspetti simultanei, e quindi l’insegnante, nei casi gravi – che sono anche quelli che offrono la necessità di un intervento didattico più accurato – deve decidere a che cosa dare la priorità.

Trascurando temporaneamente il resto?

In certi casi, sì. Un grande didatta, Adriano Colombo, ricordava una volta che in una scuola elementare una bambina non riusciva a separare le parole tra loro – «lacasa», per esempio – e la maestra impiegò due mesi a correggere solo questo aspetto; ed era giusto così, perché evidentemente nell’acquisizione delle regole ortografiche il principio della separazione delle parole è prioritario rispetto agli altri. Questo criterio, in casi gravi, bisognerebbe sforzarsi di applicarlo anche con ragazzi più grandi, quando fanno errori più complessi.

Un’esperienza molto frequente è che uno studente si chieda cos’ha sbagliato rispetto al compagno che ha preso un voto più alto, a parità di errori…

È inevitabile. Non c’è un modo di correzione che renda immediatamente trasparente al ragazzo perché due temi in apparenza simili sono stati giudicati in modo diverso. C’è un margine di giudizio individuale che è ineliminabile e dal quale sarebbe velleitario prescindere.

Siamo alla vigilia dell’esame di stato, che offre la possibilità di scegliere tra una grande quantità di tipologie. Secondo lei che cosa dovrebbe verificare la prova finale di italiano di un corso di studi come quello del secondo ciclo?

L’analisi del testo – che viene scelta da una minoranza degli studenti, quasi esclusivamente del liceo classico o scientifico – verifica la preparazione dello studente sugli argomenti dell’ultimo anno, sia in ambito letterario che storico, misurando la sua capacità di leggere un testo letterario o di muoversi nell’orizzonte storiografico, parlandone in modo ordinato con proprietà di lessico. Il saggio breve – che io a suo tempo avevo salutato con favore, ma che non sembra particolarmente adatto per l’esame di stato -, mette alla prova la capacità dello studente di collegare i dati esterni, anche alla luce della sua personale cultura e maturazione, in un discorso organico.

Perché ritiene che il saggio breve non funzioni?

Perché spesso il ministero ha esagerato nel numero delle citazioni. Nel caso di una prova sui «luoghi dell’anima», qualche anno fa, veniva riportata addirittura una decina di brani e lo studente si sentiva in obbligo – sbagliando – di dire qualcosa di tutti. Ne derivò in molti casi un discorso molto piatto, senza nessuna possibilità di approfondimento. Dovrebbe passare il principio che i brani proposti, quale che sia il loro numero – e non dovrebbero mai essere troppi – sono e vanno trattati come uno spunto, e non come parti da inglobare nello svolgimento. Uno studente dovrebbe sceglierne tre, quattro, aggiungendo altre sue considerazioni e letture personali. Altrimenti davvero si cancella ogni possibilità di originalità.

Che cosa dire del tema tradizionale?

Il classico tema non è affatto morto. Purtroppo è un po’ il rifugio dei ragazzi che si sentono meno forti in italiano, e che si trovano a dover dire qualcosa su temi fatalmente molto generici. Penso che anche scegliendo questi macroargomenti, bisognerebbe far emergere la capacità di svolgere un discorso compiuto e articolato su tre, quattro idee, non necessariamente originali, ma ben collegate tra loro.

Mettiamoci invece nei panni dei docenti. Che cosa aspettarsi e che cosa correggere?

Da un lato l’obiettivo irrinunciabile dovrebbe essere la piena tenuta della lingua: a 18-19 anni bisogna essere in grado di scrivere senza errori anche con una certa scioltezza e ricchezza. Dall’altro, la capacità di svolgere un discorso organico, non casuale, in cui pochi nuclei tematici significativi siano collegati tra loro in modo non contraddittorio, lineare, ordinato, sufficientemente persuasivo.

Le competenze linguistiche e compositive di cui parla sono definibili a prescindere dal percorso seguito dallo studente, cioè dalla scuola, o no?

Dovrebbe essere così: non riesco a pensare che ci siano delle differenze abissali tra chi consegue una maturità tecnica e chi una maturità liceale. È chiaro che si tratta di livelli diversi, ma un diciottenne dovrebbe comunque arrivare a sapersi esprimere per iscritto in modo adeguato, svolgendo un discorso con una sua tenuta logica. Credo che sia un obiettivo «civile», prima ancora che legato al tipo di scuola.

Che cosa si sentirebbe di consigliare ad uno studente che si trova di fronte alla prima prova dell’esame di stato?

Di prendere seriamente in considerazione l’articolo di giornale, ammesso che abbia dimestichezza con i quotidiani, cosa che di per se è in ogni caso auspicabile… Un editoriale per esempio, ma non solo, è un articolo che di solito offre un modello di italiano sufficientemente sciolto, efficace e soprattutto svolge un discorso sufficientemente consequenziale. Un giornalista non può permettersi di parlare come capita, ma deve catturare l’attenzione del lettore, portarlo alla fine della lettura, e lasciargli l’idea di avere ricavato qualche cosa, un’idea, una provocazione, come si ama dire adesso. Soprattutto, lo studente – qualsiasi scelta faccia – non si lasci prendere dalla foga di scrivere: ragioni, organizzi le idee, trovi i punti forti di quello che vuol dire. Le parole, come si suol dire, «seguiranno».

È vero che le scuole medie sono l’«anello debole» nella preparazione in lingua italiana dei nostri studenti?

È sicuramente così, e sono tanti gli indizi che dimostrano la flessione del livello medio della scuola media rispetto alle elementari. Per quanto riguarda l’insegnamento della grammatica italiana, posso dire che gli strumenti a disposizione dell’insegnamento della teoria sono assolutamente sproporzionati rispetto alla quantità di cose che contengono e alla gerarchia delle informazioni. Oggi le grammatiche della scuola media sono praticamente intercambiabili con quelle del biennio delle superiori e questo non va. Occorrerebbe avere il coraggio di non pretendere di esaurire gli argomenti nella scuola media, rafforzando invece alcune competenze di base. E poi, graduare molto i programmi.

In altri termini?

Auspicherei che un bambino che completa le elementari sappia cos’è il soggetto, cos’è il predicato, cos’è l’oggetto, punto. Gli altri complementi, anche importanti, secondo me possono essere studiati alle medie e non alle elementari, e altri argomenti più complessi possono essere riservati al biennio. Occorre, ripeto, stabilire una gradualità di obiettivi per conseguire risultati duraturi, anche perché gli esercizi proposti dai manuali di scuola sono più volti al riconoscimento delle strutture che non alla produzione del testo. E infine, l’esercizio metalinguistico di riflessione sulla lingua è certamente molto utile: oggi l’analisi logica è considerata l’esercizio fondamentale, soprattutto nella scuola media, ma questo avviene purtroppo a discapito della riflessione sui significati, che non può essere messa da parte.

Un esempio?

Un ragazzo, alle medie, non può non sapere la differenza tra «vecchio» e «anziano»; alle superiori, deve sapere che «obsoleto» si può dire di una parola, di una tradizione, ma non di una persona né di un edificio; al termine di un liceo non può ignorare nemmeno «annoso» («l’annosa lite per l’eredità dello zio Renato…»).

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