Una indiscrezione arrivata all’apertura delle buste per la traccia di latino, sembra trovare conferma. La versione di latino da tradurre per gli studenti dell’istituto classico, sarebbe un brano tratto dalle Epistulae morales ad Lucilium (Lettere morali a Lucilio). Quello che comincia con la frase “Quicumque beatus esse constituet, unum esse bonum putet quod honestum est; nam si ullum aliud existimat, primum male de providentia iudicat”. Cioè “Il vero bene fa la virtù”. Di seguito postiamo il testo di quello che in attesa di annuncio ufficiale sembra essere il testo della versione da tradurre e una sua traduzione, segnalando che non si tratta di una traduzione fatta da un esperto o da un professore di latino, ma di una semplice traduzione indicativa postata dagli studenti sui loro siti. Attenzione dunque a non usarla come traduzione ufficiale per confrontare le traduzioni fatte in classe. Attendete verifiche ufficiali.
Quicumque beatus esse constituet, unum esse bonum putet quod honestum est; nam si ullum aliud existimat, primum male de providentia iudicat, quia multa incommoda iustis viris accidunt, et quia quidquid nobis dedit breve est et exiguum si compares mundi totius aevo. Ex hac deploratione nascitur ut ingrati divinorum interpretes simus: querimur quod non semper, quod et pauca nobis et incerta et abitura contingant. Inde est quod nec vivere nec mori volumus: vitae nos odium tenet, timor mortis. Natat omne consilium nec implere nos ulla felicitas potest. Causa autem est quod non pervenimus ad illud bonum immensum et insuperabile ubi necesse est resistat voluntas nostra quia ultra summum non est locus. Quaeris quare virtus nullo egeat? Praesentibus gaudet, non concupiscit absentia; nihil non illi magnum est quod satis. Ab hoc discede iudicio: non pietas constabit, non fides, multa enim utramque praestare cupienti patienda sunt ex iis quae mala vocantur, multa impendenda ex iis quibus indulgemus tamquam bonis. Perit fortitudo, quae periculum facere debet sui; perit magnanimitas, quae non potest eminere nisi omnia velut minuta contempsit quae pro maximis vulgus optat; perit gratia et relatio gratiae si timemus laborem, si quicquam pretiosius fide novimus, si non optima spectamus.
Se uno vuole essere felice, si convinca che l’unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono insignificanti e di breve durata, se paragonati all’età dell’universo. Conseguenza di questi lamenti è che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano scarsi, incerti e caduchi. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: odiamo la vita, temiamo la morte. Ogni nostro disegno è incerto e non siamo mai pienamente felici. Il motivo? Non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove la nostra volontà necessariamente si arresta: oltre la vetta non c’è niente. Chiedi perché la virtù non provi nessun bisogno? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà: chi vuole mantenere l’uno e l’altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali, rinunciare a molte cose di cui si compiace come se fossero beni. Scompare la forza d’animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo al meglio