Ancora in attesa che il ministero rilasci le tracce ufficiali, sin da stamattina alle 8 e 30 è però circolato il testo di quella che dovrebbe essere la versione di latino da tradurre per gli studenti del Liceo Classico. Si tratta di un brano di Seneca, per l’esattezza tratto dalle Epistulae morales ad Lucilium (Lettere morali a Lucilio). Non sono state pubblicate fotografie del testo da nessun o dei siti specializzati, nondimeno, pur trattandosi di un rumor, non è stato smentito da altre indiscrezioni e la possibilità che a questo punto la versione di latino diffusa su internet sia quella ufficiale sono in aumento. Ieri era stata diffusa una traccia della versione di latino rivelatasi poi un bluff, la cosa curiosa però che si trattava di un brano anch’esso di Seneca. IlSussidiario.net ha chiesto a un professore ed esperto latinista, Rossano Salini, di tradurre per noi la versione in modo da offrire una guida di verifica per gli studenti. Vengono anche fatti alcuni commenti sul grado di difficoltà e su alcuni passaggi che meritano particolare attenzione nel passaggio di traduzione. Le traduzioni che circolano in rete o tratte da bigini e antologie spesso si prendono libertà interpretative inadatte agli studenti, che dovranno in sede di colloquio arrivare a motivare le scelte fatte. Una traduzione non deve essere troppo letterale, ma i costrutti latini devono essere ben compresi e resi in italiano fluente in modo rispettoso della sintassi e della struttura logica peculiare di entrambe le lingue. Cosa non scontata, ma fondamentale perchè la traduzione sia utile in sede d’esame.
Ecco il testo latino: “Quicumque beatus esse constituet, unum esse bonum putet 1quod honestum est; nam si ullum aliud existimat, primum male de providentia iudicat, quia multa incommoda iustis viris accidunt, et quia2 quidquid nobis dedit breve est et exiguum si compares mundi totius aevo. Ex hac deploratione nascitur ut3 ingrati divinorum interpretes simus: querimur quod non semper, quod et pauca nobis et incerta et abitura contingant. Inde est quod nec vivere nec mori volumus: vitae nos odium tenet, timor mortis. Natat omne consilium nec implere nos ulla felicitas potest. Causa autem est quod non pervenimus ad illud bonum immensum et insuperabile ubi necesse est resistat voluntas nostra quia ultra summum non est locus. Quaeris quare virtus nullo egeat? Praesentibus4 gaudet, non concupiscit absentia; nihil non5 illi magnum est quod satis. Ab hoc discede iudicio: non pietas constabit, non fides, multa enim utramque praestare cupienti patienda sunt ex iis quae mala vocantur, multa impendenda ex iis quibus indulgemus tamquam bonis. Perit fortitudo, quae periculum facere debet sui; perit magnanimitas, quae non potest eminere nisi omnia velut minuta contempsit quae pro maximis vulgus optat; perit gratia et relatio gratiae si timemus laborem, si quicquam pretiosius fide novimus, si non optima spectamus”. Seneca Ad Lucilium Liber VIII – Lettere LXXII-LXIV
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“Se uno vuole essere felice, si convinca che l’unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono piccoli e di breve durata, se paragonati all’età dell’universo. Da questa lamentela ne consegue che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano pochi, incerti e destinati a finire. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: ci prende l’odio per la vita, e il timore della morte. Ogni nostro disegno è incerto e nessuna felicità ci può soddisfare a pieno. Il motivo è che non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove è necessario che la nostra volontà si arresti, dal momento che oltre la vetta non c’è niente. Chiedi perché la virtù non abbia bisogno di nulla? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà, e chi vuole mantenere l’uno e l’altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali e rinunciare a molte cose di cui ci compiacciamo come se fossero beni. Scompare la forza d’animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo alle cose migliori”.
Note: Brano dalla struttura sintattica semplice, e di facile traduzione anche dal punto di vista lessicale, senza particolari ambiguità da sciogliere. Gli studenti dovranno prestare attenzione solo alla parte centrale, da “nihil non illi magnum” fino a “indulgemus tamquam bonis”. Innanzitutto dovranno ricordarsi – dimenticando la lingua italiana – che in latino due negazione affermano. Quindi facciamo come se “nihil non” non ci fosse, e la frase risulta “illi [sottinteso: virtuti] magnum est quod satis”, cioè: “per essa [per la virtù] è grande ciò che le basta [letterale: ciò che per essa è abbastanza]”.
Il periodo successivo, in particolare a partire da “multa enim”, è l’unico di tutto il brano con una struttura leggermente complessa, che si può sciogliere così:
“[sottinteso: ei] cupiendi prestare utramque [trad: colui che vuole mantenere l’una e l’altra (riferito a pietas e fides della frase precedente; da notare che “cupiendi” è dativo d’agente retto dal successivo “patienda”)] patienda sunt multa ex iis quae mala vocantur [trad: deve sopportare molte delle cose che vengono dette “mali”, molti dei cosiddetti mali].
Dopo la virgola si ripete la stessa struttura della frase, con sottinteso ancora “ei cupiendi prestare utramque” [chi vuole mantenere entrambe] “impendenda (sunt) multa ex iis quibus indulgemus tamquam bonis” [trad: deve rinunciare a molte delle cose di cui ci compiacciamo come se fossero beni]