Seneca, e il “Seneca morale” in primis, è insidioso. Si veste di una sintassi semplice, gestita in frammenti a volte secchi e nervosi. Non mostra un insistito ricorso all’ipotassi, mentre splende incisiva ed espressiva la coordinazione, spesso per asindeto. Domande retoriche all’interlocutore (il Lucilio che è ciascuno di noi), unite ad un periodare più ampio e complesso, aprono alle celebri sententiae, lapidarie ed icastiche, in cui si condensa problematicamente un pensiero da assaporare nelle sue implicazioni e sfumature.



Nel brano scelto si ritrovano tanti stilemi senecani, di quelli che lo studente impara a riconoscere e – lo si può almeno auspicare – anche ad apprezzare. Seneca sovente accarezza l’orecchio, si legge con una piacevolezza e un’intensità che non trovano termini di paragone adeguati. E anche il Seneca proposto concede volentieri il fascino che è solito provocare. Ma – come si diceva – Seneca, e il “Seneca morale” in primis, è insidioso.



Nella discreta facilità sintattica e nell’organicità del pensiero espresso, si affacciano problemi ardui per il traduttore. Il sapiente ed equilibrato uso degli strumenti retorici (impreziositi peraltro dal cursus), la fine consapevolezza nella scelta lessicale, l’usus scribendi che è d’obbligo considerare in chi scriva di filosofia; questi fattori rendono gravi (nel loro ambito) le piccole decisioni di chi debba volgere il testo in un’altra lingua. Termini che abitualmente non creano problemi interpretativi, nella densità comunicativa di Seneca devono essere ponderati anche facendo appello a tutto il sostrato etimologico; altri vocaboli, poi, presentano più accezioni, che è necessario soppesare con attenzione specialmente in casi di somiglianza con la nostra lingua.



Ad esempio honestum qui non significa “onesto”, bensì ciò che è degno di onore (honos); felicitas non è la “felicità”, ma indica un benessere materiale; immensum non vuol dire semplicemente “grandissimo”, ma se ne deve riguadagnare la radice che esprime la misura; il verbo debeo è più specifico di “dovere”, giacché dice più precisamente di un debito contratto, di un obbligo.

Questa è solo un’essenziale scelta delle questioni lessicali, cui si associano problemi di ordine retorico: la complessità risiede nella resa dei chiasmi, nell’offrire la percezione delle strutture trimembri, delle riprese anaforiche, dell’ordo verborum invertito enfaticamente, del cosciente chiaroscuro di alcune espressioni (si pensi a summum, che significa “vetta”, “vertice”, “apice”, ma è anche traducibile semplicemente con una locuzione a base aggettivale).

Per contro, le difficoltà sintattiche sono davvero misurate: solo una frase (“nihil non illi magnum est quod satis”) è sdrucciolevole dal punto di vista interpretativo, a causa della doppia negazione e della concisione; poco immediato è anche il successivo imperativo (“Ab hoc discede iudicio”), che nasconde nella seguente punteggiatura epesegetica un esito non agevolmente deducibile. Per il resto la sintassi è – se non piana – almeno scorrevole, e richiede sforzi commisurati – se non minori – alle competenze di uno studente del liceo classico.

Dovendo trarre un bilancio, dunque, bisogna considerare tutti i fattori accennati. A ben vedere, questo Seneca non è troppo adatto all’esame di maturità. Forse tanti studenti avranno gradito la linearità d’insieme, per quanto intervallata da momenti di maggior impegno sintattico. Nondimeno, è impossibile non porsi il problema della resa espressiva: le sententiae, gli espedienti retorici, la consapevolezza semantica, la pregnanza di alcuni termini “tecnici”; come valutare, nella correzione, la traduzione di queste componenti? È chiaro che la linea generale non potrà necessariamente essere rigida: è impensabile esigere dagli studenti soluzioni letterarie che, dovendo dar conto di numerose istanze, possono mettere alla prova i più provati latinisti. È anche vero, però, che è Seneca stesso a richiedere una tale lettura di sé, che consideri tutta la profondità del testo.

Nella speranza che la diffusa (ma non perciò facile) essenzialità senecana abbia incontrato il favore degli esaminandi, sia permesso in questa sede un appunto, e gli studenti non ce ne vogliano: sarebbe forse stata più opportuna la scelta di un brano maggiormente complesso nella sintassi, ma meno problematico nella resa. Così facendo sarebbe stato più semplice stabilire i criteri per valutare le competenze necessarie alla traduzione, evitando il dilemma su quei problemi stilistici e interpretativi che, se considerati, non renderebbero giustizia allo studente; se ignorati, non renderebbero giustizia all’autore.

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