Caro direttore,
Non voglio qui infierire sull’incidente delle griglie sbagliate propinate dall’Invalsi per le prove di terza media, sebbene non sia opportuno minimizzare l’incidente, dato che qui si non sta parlando di un test qualsiasi ma di una componente della prova globale d’esame. Anche se questo incidente non fosse avvenuto c’è da chiedersi se all’Invalsi non si stia esagerando. Già, a suo tempo, Elena Ugolini aveva osservato polemicamente che era stato creato un clima di avversione alle prove Invalsi “da una minoranza molto abile a far passare le proprie idee attraverso la stampa e Internet” (Avvenire, 12 maggio 2011, ndr): un colpo basso tendente a far passare i critici come scaltri imbonitori. Ora ci si mette Roberto Ricci a qualificare i medesimi come “componenti minoritarie e platealmente ostili” a una valutazione che finalmente non sarebbe più un tabù.
Questa è una tecnica per eludere il merito della discussione, non so quanto abile ma certamente elusiva: far passare le critiche come un rifiuto della valutazione in sé e per sé, e bollarle come espressione di minoranze “platealmente ostili” e “abili” a incantare il prossimo. Un tecnico serio come Ricci non dovrebbe abusare della statistica facendo passare il fatto che la stragrande maggioranza dei docenti abbia proposto ai propri studenti le prove Invalsi come la prova di un consenso maggioritario. Le regole si rispettano anche quando non si condividono, ma questo non vuol dire nulla circa il grado di consenso. Sfido a dimostrare che la stragrande maggioranza dei docenti universitari non sia ostile alla laurea 3+2 e al sistema dei crediti, ma nessuno si sogna di disattenderne l’applicazione.
Se fossi un docente della scuola secondaria avrei fatto quanto prescritto per legge circa i test Invalsi, ma avrei considerato abusivo dedurne un mio consenso. Dirò di più: se fossi un docente della secondaria di primo grado avrei addestrato i miei studenti a superare i test Invalsi. Visto che questi rappresentano ormai per legge una componente di valutazione dell’esame finale, avrei fatto soltanto un danno nei loro confronti non addestrandoli a superarli. Ciononostante avrei compiuto questo dovere “turandomi il naso”, con un senso di profonda ripulsa e di vera e propria pena.
Difatti, considero – e ritengo che tanti la pensino allo stesso modo – che l’introduzione del “teaching to the test” nella scuola sia un autentico scandalo, un fatto di estrema gravità. E il punto è questo – se ne rendano bene conto all’Invalsi -: il fatto che le prove Invalsi facciano media nella valutazione dell’esame di terza media rende inevitabile l’addestramento a superarli. Pertanto, è bene che ci si renda conto che delle due l’una: o si replica alle critiche entrando nel merito e assumendosi la responsabilità delle scelte, oppure, se non si vuole entrare nel merito, è bene lasciare il compito di rispondere ai responsabili di quelle scelte, comportandosi secondo il motto dei carabinieri, “usi a obbedir tacendo”.
È proprio entrando nel merito delle prove che ci si rende conto di quanto sia vano il tentativo di far credere che ci si trovi di fronte a qualcosa che supera l’approccio in termini di quiz, di enigmistica, e che è intimamente correlato con l’apparato concettuale studiato a scuola. Esaminiamo, al riguardo, le prove di matematica per le medie inferiori. Con una premessa importante. Come evitare di cadere nei due soliti errori? Da un lato, di considerare la matematica come una scienza “procedurale” – come pretendono invece certi psicologi a caccia di discalculie – un insieme di tecniche di calcolo, di algoritmi; dall’altro, come un insieme di definizioni e teoremi da apprendere in modo astratto? Li si evita ricordando che la matematica è soprattutto come una “cassetta di concetti e metodi”: essi non sono pensabili se non in relazione a problemi da risolvere, che, man mano che si pongono, stimolano ad arricchire e perfezionare la “cassetta di strumenti” medesima. Per cui il modo corretto di insegnare, apprendere, e anche di “fare” matematica, è di stabilire un continuo via vai tra problemi e teoria che porti a un arricchimento della seconda e quindi a un potenziamento della cassetta di strumenti in modo da renderla adeguata a risolvere nuovi e più complessi problemi. Una mera pratica di “problem solving” che non si basi su un apparato teorico e che non miri ad arricchirlo continuamente – al fine di rendere più efficace proprio la soluzione dei problemi! – non ha niente a che fare con l’apprendimento della matematica.
Ora, basta un esame superficiale dei test Invalsi – e farò grazia a ilsussidiario di esaminarli uno per uno – per rendersi conto che dietro di essi non vi è praticamente alcun apparato teorico propriamente matematico. Nessuna conoscenza specificamente matematica è richiesta per risolvere la maggior parte di essi. Il legame con il contenuto specifico dell’insegnamento della matematica nella media inferiore è quasi inesistente. La domanda D2 – “Che cosa succede se si addizionano tre numeri dispari consecutivi?” – non richiede alcuna conoscenza matematica, salvo la definizione di numero primo (nota dalle elementari) e potrebbe essere proposta in qualsiasi rivista enigmistica. La domanda D4 (come si trasforma la scritta HL in una rotazione di 180°) non richiede alcuna conoscenza specificamente geometrica e potrebbe piuttosto essere proposta in prima elementare, o persino nella scuola dell’infanzia, per familiarizzare concretamente i piccoli con le rotazioni e le simmetrie. E se almeno D14 serve a verificare che si possiede la nozione di percentuale, la gran parte delle altre domande di carattere pratico o commerciale (D1, D3, D5, D7, D8, D12, D15, D18, D19) non hanno alcuna relazione con la matematica, bensì semplicemente col fare conti.
Forse l’unica domanda davvero intelligente – in quanto lega una formula a un processo reale e quindi mette in opera capacità di rappresentazione modellistica – è la D17. Tralasciamo altri dettagli relativi a evidenti difetti di formulazione e atteniamoci alla caratteristica dominante di questi quiz: se proprio di matematica si vuol parlare, questa è la matematica del cittadino, la “matematica” (si fa per dire) che interviene al mercato, alle poste, nella lettura dei giornali, dei cartelli, delle istruzioni per l’uso, ecc. È una pratica quantitativa per la quale non occorre (o quasi) alcun apparato concettuale particolare, bensì un’abilità congenita migliorata da particolari forme di addestramento. Insomma, qui siamo piuttosto nell’ambito di quelle che taluni chiamano, con un linguaggio da Ispettore Clouseau, le “competenze della vita”.
L’estremo paradosso è che si trovano più concetti propriamente matematici nelle prove Invalsi della primaria, che non in quelle delle medie o delle superiori. Anzi la presenza di questi concetti è decrescente al crescere dei livelli, se non in assoluto, certamente in relazione a ciò che le Indicazioni nazionali dei vari cicli prescrivono.
Non si venga dunque a dire che queste prove vanno nella direzione di una maggiore adesione ai contenuti e si allontanano da un approccio a quiz o enigmistico. Perché ciò vorrebbe dire che chi ha elaborato questi test non ha un’idea chiara di cosa sia la matematica.
Un discorso a parte va invece fatto sulle prove di Italiano, su cui ci limiteremo a un’osservazione generale. Qui i test si dividono in due categorie: quelli che diagnosticano le conoscenze di grammatica, ortografia e sintassi dello studente e su cui c’è poco da obiettare. Casomai vi troviamo la conferma di una vecchia e fondata tesi, e cioè che il luogo privilegiato di nascita, e di senso, dei test, è proprio la verifica delle capacità linguistiche di base, forse l’unico contesto in cui può parlarsi di una “valutazione oggettiva” delle capacità dello studente. Ma poi ci sono le prove di interpretazione dei testi e qui le cose vanno molto male e si pone un problema assai grave che compare anche nelle prove del liceo, e che possiamo riassumere in una domanda: come si può pretendere che l’interpretazione degli aspetti non meramente fattuali di un racconto possa essere codificata in una risposta chiusa a crocette?
Da comune lettore – e gli studenti sono comuni lettori – rivendico il fatto che la risposta alla domanda A6 sul testo di Vittorini possa essere sia D che C, e le ragioni per cui il protagonista abbia deciso di chiamare la ragazza di cui è innamorato col soprannome Diana possono essere più d’una rispetto a quella ritenuta giusta o almeno trovarsi all’intersezione di almeno due risposte. Giovanna invia al protagonista un garofano rosso e lui pensa “Mi ama!”: E, visto che ha detto “Mi ama!”, la risposta “giusta” sarebbe che il garofano è espressione dell’amore di Giovanna “che è per lui tutto il bene”? È ovvio, ma non si veda in cosa questo sia in contraddizione col fatto che, nell’intreccio di sentimenti del protagonista, sia presente anche la gioia perché lei lo ha corrisposto e che ha preso un’iniziativa. In che senso queste sarebbero risposte “sbagliate”?
Questo schematismo interpretativo lo ritroviamo tal quale nelle domande relative al brano di Rigoni Stern per i Licei, e corrisponde a una visione misera e riduttiva dell’interpretazione di un testo letterario, il quale non è un teorema di matematica (quantomeno di matematica assiomatica moderna… ché quella antica è anch’essa abbastanza ambigua). Non si potrà insistere abbastanza su quanto sia profondamente diseducativa una visione del testo letterario come suscettibile di interpretazione univoca. Così si distrugge a priori nelle menti di chi non ne abbia la pratica, l’idea che l’analisi interpretativa dei testi ha lo scopo di scavarne gli innumerevoli strati di senso. Nella migliore delle ipotesi si rischia di mettere in rotta di collisione questo procedere stereotipato e ottuso con la pratica di un buon insegnante.
Tutto ciò è molto pericoloso perché non siamo soltanto di fronte a una pratica di valutazione mediante test che fa storia a sé, bensì di test che entrano a far parte della valutazione complessiva della prova di esame. Proprio per questo, e per le ragioni illustrate all’inizio, non è responsabile liquidare in modo sbrigativo e con sufficienza, o ripetendo la filastrocca dello “standardizzato” e dell’“oggettivo” i problemi seri che stiamo sollevando.