Sulle prove Invalsi si è detto di tutto, nel bene e nel male. Spesso con interventi di angolazione prettamente politica, spesso esagerando quel tanto che basta per rinfocolare sentimenti di rivolta. Da un “buco” nel software che ha costruito la griglia di correzione si è preso lo spunto per sparare titoli ad effetto, del tipo “clamoroso flop delle prove Invalsi. Ora è tutto da rifare”. Quando, dopo qualche ora, si è capito che l’inconveniente era modesto e che non c’era nulla da rifare, nella migliore tradizione giornalistica italiana nessuno si è rimangiato quei titoli, e nel lettore distratto è rimasta l’amara sensazione di un’ennesima brutta figura da improvvisazione. Nei blog si sono scontrate posizioni estreme, troppo spesso preconcette, poco documentate, a volte persino violente. Si è addirittura scambiato un Istituto Nazionale di Valutazione per un organismo politico, creato col fine ultimo di licenziare professori; e così via.



Poi la discussione si è un po’ decantata, e si è arricchita – anche su questo giornale – di posizioni ragionate e documentate. È il momento, ora, a bocce ferme, di riflettere con calma, sine ira et studio, su pregi e difetti di queste misurazioni standardizzate.

Delle prove di lettura si è già detto molto. Vorrei solo aggiungere una considerazione che, se non sbaglio, pochi hanno fatto e che a me pare, invece, centrale. Nella scuola italiana c’è una lunga tradizione di valutazione dei prodotti della scrittura: dai pensierini delle elementari – che la maestra chiosa, prima dei voti, con aggettivi valutativi, in una scala che di solito va da bene a bravissimo – al tema in classe, che accompagna scolari e studenti fino alla maturità, trascinandosi problemi mai risolti di grande discrezionalità nell’attribuzione dei punteggi. Non c’è mai, invece, un momento di valutazione specifica per l’attività di lettura. Che, sappiamo, è un prius rispetto alla scrittura, e richiede l’attivazione di processi complessi (comprensione letterale, inferenze, generalizzazioni, analogie, coreferenze, ecc.) che sarebbe indispensabile seguire passo passo.



Ebbene, le prove Invalsi hanno quanto meno il merito di porsi questo problema, e di indurre i docenti a dare un posto di rilievo alle attività di verifica della comprensione, all’interno del faticoso pluriennale iter di insegnamento della lettura. Credo che ne saranno ben ripagati, in termini di comprensione dei processi di apprendimento e di taratura dei loro strumenti didattici in funzione dei risultati verificati.

Qualcuno ha osservato che certe domande riguardavano non tanto la comprensione di base del testo, quanto l’interpretazione, e che le scelte interpretative del “lector in fabula” sono per definizione libere. Vero: sarà bene richiamare gli estensori dei test a rimanere al di qua di questo limite importantissimo. Per ora, in particolare nei test di quest’anno, non mi sembra che il confine sia stato superato. Ma, come si diceva una volta, dobbiamo vigilare. 



Poco si è detto invece dei test di grammatica. Il che è un buon segno, perché vuol dire che in genere sono sembrati adeguati allo scopo. In realtà, proprio sull’accertamento della competenza grammaticale si concentrano una serie di difficoltà, che provo qui a riassumere.

Quanta grammatica (o, come giustamente si dice oggi, riflessione sulla lingua) si fa effettivamente nella scuola italiana? La misura è molto variabile: nella maggior parte dei casi se ne fa molta, in alcuni casi poca, e in altri casi – tutt’altro che infrequenti – l’alunno, lasciata la scuola di base, con la riflessione sulla lingua ha solo qualche contatto occasionale, “leggero”, volatile. Ovvero, studia e dimentica: come se si trattasse dell’elenco del telefono.

Quale grammatica si insegna? Con quale modello descrittivo? All’interno di quale progetto didattico? Con quali nessi con il piano didattico generale della classe, o della scuola? Spesso, nessuno: è una cosa “che si deve fare”.

Che cos’hanno in comune i vari ordini di scuola, sul piano della grammatica? Poco. Le differenze “orizzontali” fra i diversi ordini di scuola sono molto forti, tanto nei Programmi (e nelle Indicazioni ministeriali) quanto nella pratica didattica reale. Ci sono motivazioni reali, alla base di queste differenziazioni, ma sta di fatto che ci sono: tutti i rilevamenti fatti vedono ai due estremi, sempre, gli istituti tecnici e professionali da una parte, i licei classici dall’altra. Non è politicamente corretto dirlo, ma questa è la realtà, e con questa deve fare i conti un rilevamento nazionale standardizzato.

I libri di testo. Sono le vere palle al piede della didattica, in questo ambito. Da mezzo secolo ormai si è dimostrato che la grammatica tradizionale è in parte sbagliata in parte inefficace, e la linguistica ha fatto passi da gigante nell’ammodernamento dell’approccio didattico alla lingua, ma gli editori – tutti gli editori – chiedono sempre e solo stanche ripetizioni delle categorie grammaticali di un secolo fa. E molti docenti pensano: se lo dice il libro…

I test Invalsi, in conclusione, si muovono in un campo minato: da una parte devono tener conto di approcci minimali e molto tradizionali alla grammatica, dall’altro devono lanciare segnali di rinnovamento a editori e insegnanti. Quest’anno si è scelta la strada della semplicità terminologica (magari con blande introduzioni di una terminologia più aggiornata, con l’espediente della spiegazione fra parentesi) e dell’alternanza delle tradizionali attività di riconoscimento e classificazione con attività che richiedono operazioni di tipo induttivo: messa in relazione, inferenza, generalizzazione, traslazione. Un equilibrio delicato, da mantenere ma anche da verificare anno per anno.

Un’ultima riflessione, ancora relativa alla riflessione sulla lingua. Comunque li si voglia valutare, i test Invalsi hanno alcuni punti di forza, che orientano tutti nella direzione di una sollecitazione a una didattica meno frammentata e meno disuguale di quella attuale, più cognitiva-operativa che meramente classificatoria.

a. Portano in primo piano la riflessione sulla lingua, che se sviluppata in senso moderno consiste in un approccio scientifico al dato (linguistico) e al testo, inserendo la grammatica in un percorso di ricerca vera e propria: dal problema all’osservazione dei dati linguistici, all’elaborazione di ipotesi, alla loro verifica, sino alla generalizzazione. L’obiettivo diventa trasversale, e la grammatica non è più avulsa dagli altri percorsi didattici.

b. Inducono comunque a garantire agli studenti, a tutti gli studenti, un minimio di alfabetizzazione grammaticale effettiva (e non solo, mi auguro, attraverso il famigerato teaching to test, del resto felicemente ignorato da insegnanti ben più intelligenti degli editori senza scrupoli che pensavano di trarne lauti guadagni). 

c. Sul piano didattico generale, inducono a privilegiare l’assimilazione di capacità di analisi funzionale e formale, e capacità di corretto utilizzo della lingua, rispetto a una classificazione astratta e fine a se stessa.

d. Sul piano didattico specifico, inducono a non trascurare attività fondamentali di riflessione sulla lingua, che troppo spesso sono addirittura ignorate. Un esempio classico: il vocabolario, spesso un illustre sconosciuto della scuola italiana. Se anche solo pochi insegnanti fra quelli che non lo utilizzano, riflettendo sulle prove Invalsi, si porranno il problema di fare più posto nella loro didattica quotidiana a uno strumento così altamente formativo vorrà dire che silenziosamente, senza clamori, qualcosa può cambiare. In meglio.

In definitiva: se qualcosa non funziona nelle prove Invalsi è bello, utilissimo, doveroso parlarne e cercare di migliorarle. Ma stiamo attenti a non buttare via il bambino con l’acqua sporca.  

 

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