In questi giorni mi è capitato, per lavoro, di svolgere una sessione d’esami in università, e per amicizia di affiancare qualche figlio o figlia di conoscenti nella preparazione all’esame di maturità.  Entrambe le cose mi hanno dato da pensare su un paio di questioni, sollevate nei giorni scorsi da alcuni interventi apparsi su Ilsussidiario.



La prima questione – che riguarda egualmente liceali e universitari – la circoscriverei così. Si riscontra di solito negli studenti, non appena li si invita a enunciare o a esporre un argomento (e sempre che non si perdano subito in discorsi generici), una marcata focalizzazione sul “particolare” – si tratti di parlare delle principali teorie dell’istruzione del Novecento, oppure dei processi storici che segnarono, in Italia e nel mondo, i decenni tra la proclamazione del Regno d’Italia e lo scoppio della Grande Guerra. Così essi in partenza “restringono” l’orizzonte eventualmente più ampio della domanda, e rispondono con maggiore (meno frequentemente) o minore (più spesso) dettaglio e precisione, in un arco di tempo che di norma non supera i due o tre minuti. Quando, a quel punto, si rivolge loro una seconda  domanda, deliberatamente finalizzata ad aprire (o riaprire) un orizzonte più grande, in cui contestualizzare ciò che han detto fin lì, nella maggioranza dei casi essi tornano a muoversi nel medesimo “registro” cognitivo.



La seconda questione potrebbe essere riassunta con il termine “schematismo”. Risulta più evidente con gli studenti universitari, ma riguarda anche i maturandi. Consiste nella tendenza a “fissare” in uno schema (più o meno articolato) o in una definizione la conoscenza di un determinato argomento, sia esso la concezione pedagogica di uno studioso, oppure il processo più che bicentenario dell’industrializzazione. In ogni caso, lo studente mi restituisce, più o meno chiaramente e coerentemente, l’oggetto del suo studio, presentandomi in maniera abbastanza “asciutta” una definizione teorica, o un evento storico, o ancora una delle distinte causalità che s’intrecciano nel vivere umano, nei processi formativi e nelle dinamiche sociali. Se lo invito ad analizzare maggiormente la cosa, posso aspettarmi più facilmente la ripetizione di quanto ho appena sentito, piuttosto che un “di più” di conoscenza nel merito – in termini sia di nozioni, che di correlazioni ad altri argomenti o problemi.



Fin qui la situazione (non so a quanti succeda così, o altrimenti – sarebbe interessante verificarlo). In essa emerge senz’altro del positivo di cui rallegrarsi e del valido da trattenere – anzitutto, la capacità  della nostra mente a “centrare” un aspetto del reale e a fissarlo in una definizione o rappresentazione. Ma perché le cose vanno – o meglio, non vanno oltre la soglia descritta? La questione è impegnativa e complessa – nessuna pretesa, perciò, di rispondere in poche righe. Vorrei tuttavia formulare un’ipotesi, articolandola su due piani.

Il primo è quello didattico-pedagogico. Che cosa può aver stimolato, indotto e consolidato nelle odierne generazioni di liceali e di universitari la diffusa forma mentis, consistente nella simbiosi tra particolarismo e schematismo? Viene spontaneo rispondere: l’impostazione di fondo del sistema scolastico e della docenza nel nostro Paese, che negli ultimi decenni (è un discorso lungo, che  richiederebbe un’analisi approfondita sia della formazione universitaria e all’insegnamento, sia dell’evoluzione della scuola e dell’università dagli anni ottanta in poi) ha trovato i propri criteri-guida, prevalentemente, nel funzionalismo sociale e nel metodologismo.

Ma, seppur rilevante, forse questo non è l’unico fattore in gioco. Avanzerei l’ipotesi che dovremmo mettere in conto l’influsso di almeno due ulteriori fenomeni.

Il primo, di carattere strutturale, è l’effetto, sul registro specificamente intellettuale e cognitivo delle nuove generazioni, della vasta diffusione e utilizzazione individuale delle tecnologie multimediali. Come le ricerche stanno via via mettendo in luce, se tale diffusione non sembra (ancora) in grado di offrire un “paradigma” del tutto alternativo al modello di formazione intellettuale e di scolarizzazione consolidatosi in Occidente dal Settecento a oggi (anche se qualcosa di radicalmente nuovo parrebbe possibile), essa ha però cominciato a influenzare in profondità – nei ragazzi, negli adolescenti, nei giovani – il modo non solo di pensare, ma anche (e più significativamente) di percepire, di cogliere la realtà e di addentrarsi in essa.

Per fare un solo esempio, gli studi di settore mettono in risalto, tra i principali caratteri del brainframe distintivo dei “nativi digitali”, il posto di rilievo occupato dal “pensiero breve” e dal  “pensiero visivo”, che comportano uno spostamento d’asse dell’elaborazione cognitiva dal concetto e dalla riflessione alla definizione e all’immagine – con tutte le conseguenze che ciò può comportare, ad esempio, sulla capacità di penetrare intuitivamente il reale che si ha di fronte (l’intus legere) e di sviluppare il conoscere attraverso i momenti dell’argomentazione e della sintesi (le due espressioni più tipiche del “pensiero discorsivo”, in cui la grande tradizione filosofica e umanistica europea ha individuato uno dei tratti distintivi della natura razionale dell’uomo).

Il secondo fenomeno, di rilievo propriamente culturale, è ciò che, in uno dei suoi ultimi scritti, Romano  Guardini ha chiamato “progressiva attenuazione del senso dell’essere”. Essa costituisce l’esito finale del processo di “riduzione” dell’esperienza religiosa nella sola sfera dell’interiorità, compiutosi nel corso dell’epoca moderna. Indebolendo o atrofizzando la capacità di percepire il reale come un “tutto”, formato da vari e distinti particolari, e come un “segno”, che urge l’intelligenza a oltrepassare l’immediata evidenza delle cose, tale attenuazione ha finito per compromettere seriamente la nostra capacità di rapporto col mondo, con gli altri uomini e con la nostra stessa vita. Così, nota ancora Guardini, “tutto diventa meno importante” per l’uomo contemporaneo – fino al limite estremo della “totale perdita del senso del reale”.

Ora, mi sembra che il progressivo venir meno della capacità di percepire il reale come un “tutto” e, insieme, come un “segno” – cioè, in ultima istanza, come qualcosa di interessante e di attraente, dotato anche di una profondità ancora da scoprire – sia un fattore tutt’altro che irrilevante per la nostra questione. Forse gli studenti si sono abituati a esercitare le loro capacità intellettive nel breve “campo di realtà” circoscritto dal funzionalismo e dal metodologismo imperanti, non solo per le cause istituzionali e strutturali sopra ricordate, ma anche per una mancanza di consapevolezza dell’intera portata conoscitiva della ragione umana, e per un esteso deficit di educazione a essa.

Forse essi si sono, o sono stati (penso più a un concorso di colpa che a una responsabilità unilaterale: certo, con un’imputazione maggiore per gli adulti) ridotti a “ragionieri” della letteratura (come della storia, della matematica, della pedagogia, e di molto altro ancora) perché hanno fatto scarsamente esperienza di un rapporto pieno con le cose, gli avvenimenti e le persone – cioè non hanno sperimentato che in piccolissima parte l’intensità e la tensione del conoscere come impatto vivo con la realtà: concreta, mobile, ricca di forme, di nessi e di significati in ogni suo ambito e dimensione.

Di fronte a tale “battuta in ritirata”,  più o meno cosciente, dell’intelligenza dentro (e fuori) la scuola e l’università, forse è urgente rimettersi con decisione “per l’alto mare aperto” della conoscenza, e darsi da fare per risvegliare e tener desto in tutti, sia in noi che negli studenti, “l’ardor […] a divenir del mondo esperto”, per esprimerci con Dante. Sul piano più propriamente intellettuale e filosofico forse potrebbe anche esserci d’aiuto una metodica “critica della ragion breve”, lungo la strada tracciata del verso di Eliot – “Dov’è la saggezza che abbiamo perso in conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso in informazione?” – e dall’invito di Benedetto XVI a Ratisbona ad allargare il concetto dominante di ragione e l’uso che se ne fa un po’ in tutti i campi.

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