1. Chi vuole fare l’insegnante se lo scordi, almeno per dieci anni. Se tutto andrà bene. Chi sta frequentando o vorrà iscriversi il prossimo anno a un corso di laurea in matematica, lingue, lettere, filosofia, scienze motorie, ecc., con l’intenzione di insegnare, sappia che non sarà possibile, perché i nuovi posti previsti dalle tabelle ministeriali per ottenere l’abilitazione all’insegnamento – anche nelle principali classi di concorso – ammontano sostanzialmente a zero fino al 2015. “Zero tituli”. E presumibilmente si discosteranno di poco dallo zero fino al 2018.



Il governo ha compiuto la sua scelta (calcolata o subita): sta dalla parte dei già abilitati non ancora immessi in ruolo e inseriti nelle graduatorie a esaurimento. Una scelta, è inutile nasconderlo, che soddisfa pienamente le richieste dei sindacati e privilegia i “diritti acquisiti”. Il tempo di smaltimento delle suddette graduatorie è stimato dagli uffici ministeriali in sette anni (ma alcuni bene informati dicono dieci o quindici), perciò prima di quella data non vi saranno nuovi ingressi. E i giovani? Si arrangino. Del resto, quelli che vogliono insegnare rappresentano un modesto serbatoio di voti e sono alla fin fine innocui. Siano loro il capro espiatorio!



Un minino di dati. Con il Regolamento, datato 10 settembre 2010 e pubblicato in Gazzetta ufficiale il 31 gennaio 2011, il governo ha ridisegnato l’iter per ottenere l’abilitazione all’insegnamento dopo la chiusura delle SSIS (Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario), avvenuta nel 2008. Il nuovo percorso prevede: per la scuola dell’infanzia e primaria, il conseguimento della laurea magistrale a ciclo unico quinquennale in Scienze della Formazione; per la scuola secondaria, bienni magistrali ad hoc per ogni classe di concorso, più un anno di Tirocinio Formativo Attivo (TFA), durante il quale, alle 475 ore da svolgere in una scuola sotto la guida di un insegnante tutor, si affiancheranno corsi e laboratori pedagogico-didattici da istituire presso una sede universitaria.



2. Nel regolamento era annunciato il carattere “programmato” dell’accesso ai nuovi percorsi. Il numero di posti disponibili doveva essere calcolato in base al fabbisogno di insegnanti in ciascuna regione. Ma le prime stime del fabbisogno nazionale e regionale per i prossimi tre anni scolastici – già comunicate agli uffici regionali e alle università – riportano numeri che lasciano attoniti: poche manciate di persone per regione, anche per le classi di concorso più grandi. È il caso delle classi di Lettere (A050, A051, A052, A061) in diverse regioni di Italia, tra cui la Lombardia e il Lazio. Per la scuola secondaria di primo grado è addirittura nullo l’intero fabbisogno nazionale di insegnanti di Lettere.

Il governo, per voce dei suoi consulenti, si giustifica con fermezza e candore: a) il fabbisogno nazionale previsto per i prossimi anni, considerando tutti gli ordini di scuola, è pari a circa 230 mila insegnanti; b) il numero di docenti abilitati tramite i vecchi concorsi pubblici (l’ultimo è del 1999) o le più recenti SSIS, e non ancora entrati in ruolo, è di 230 mila (tanti sarebbero i “precari” inseriti nelle graduatorie a esaurimento che attendono l’immissione in ruolo); c) gli accessi alla abilitazione all’insegnamento saranno pressoché nulli fino a quando non verranno riassorbiti tutti i precari. È semplice: basta sottrarre al fabbisogno dichiarato il numero dei precari abilitati e il risultato è zero o qualche sparuta unità (ciò viene per di più affermato nonostante le norme -Testo Unico D.L.vo 297/94 c. 1 art. 270 – dicano con chiarezza che il reclutamento deve proseguire secondo il cosiddetto “doppio canale”: 50% dai titoli acquisiti – graduatorie – e 50% dai concorsi).

Ad aggravare la situazione contribuiscono poi i provvedimenti della riforma scolastica Gelmini e i tagli di Tremonti, il cui effetto combinato è, da una parte, l’innalzamento fino a 30-32 del numero minimo di studenti per classe, dall’altra, la riduzione del monte ore settimanale, con conseguente ulteriore perdita di posti per l’insegnamento.

La partenza del TFA transitorio, data per imminente (novembre di quest’anno), che dovrebbe fare da battistrada all’avvio dei nuovi percorsi formativi abilitanti (costituiti dai bienni specialistici + il TFA), rischia di tradursi in una tragica farsa senza attori. Essendo i numeri dei posti così vicini allo zero, le università non potranno certo predisporre corsi per due o tre studenti. Recenti affermazioni del Ministero paventano pertanto un TFA che non sarà nemmeno su base regionale, ma inter-regionale o addirittura nazionale (corsi e laboratori pedagogico-didattici si svolgeranno in una unica sede per tutta la Penisola).

La sostanza è che il tanto agognato TFA transitorio è chiuso con un enorme lucchetto per dieci anni.

Non solo coloro che frequentano o frequenteranno corsi di laurea (matematica, lettere, lingue, filosofia…) che hanno tra gli sbocchi naturali l’insegnamento non potranno accedere ai nuovi percorsi formativi in vista della abilitazione (dato il numero quasi nullo di posti disponibili, potranno venire aperti solo pochissimi corsi specifici per l’insegnamento); ma anche i neolaureati che, in questo periodo di vacanza normativa, sono entrati a tutti gli effetti nel mondo della scuola, attraverso supplenze annuali nelle scuole statali o contratti nelle scuole paritarie, non potranno accedere al TFA per conseguire l’abilitazione. La loro prospettiva è drasticamente troncata. Cambino mestiere. Questo è un Paese per vecchi.

3. Sia chiaro, siamo perfettamente coscienti che la situazione di sovraffollamento di abilitati precari che si è venuta a creare in Italia ha qualcosa di anomalo, forse di mostruoso (anche se le liste delle graduatorie dovrebbero essere sottoposte a un esame più rigoroso e attento: verosimilmente una certa quota avrà ormai trovato altri impieghi, intrapreso altre carriere…). Non abbiamo niente da obbiettare sulle legittime aspettative della legione degli abilitati precari. Conveniamo sulla necessità di dare una decisa sterzata a tutto ciò, di mettere paletti, confini, soprattutto di ripensare seriamente il sistema di abilitazione e di reclutamento degli insegnanti (magari ispirandosi a modelli più riusciti, come quello tedesco, per fare un esempio).

Ma non possiamo condividere che il prezzo di questa stratificata e annosa situazione lo debbano pagare unicamente i giovani, cioè noi. È inaccettabile, per non dire folle, la decisione di bloccare di fatto le abilitazioni, cioè di salvaguardare unicamente i diritti acquisiti di chi è già “all’interno del sistema”, impedendo l’ingresso di nuove forze, di giovani motivati, preparati, desiderosi di costruire, disposti anche a tutti i sacrifici necessari in questo tempo di crisi. Questo significa uccidere il futuro, frustrare le aspirazioni di tanti studenti e di tanti laureati usciti dopo il 2007 dalle università (senza abilitazione, e non per loro colpa), mortificare la professione insegnante in generale e creare un buco generazionale nel corpo docente, con evidenti ricadute anche sulle nostre università, su tutti i corsi di laurea che hanno tra gli sbocchi naturali l’insegnamento. Tanto vale che i Presidi o i nuovi Direttori di Dipartimento avvisino debitamente gli studenti e i potenziali iscritti: «lasciate ogni speranza voi ch’entrate», se pensate di insegnare.

Per questo noi diciamo che la direzione intrapresa dal Ministero deve essere corretta. Meglio fermarsi in tempo. Bisogna ricominciare ad abilitare! E bisogna distribuire gli oneri. Il processo di riassorbimento degli abilitati precari non può essere realizzato a danno delle giovani generazioni. Niente patti di ferro del governo con una parte a scapito dell’altra, niente guerre tra generazioni o guerre tra poveri: occorre tenere aperta la possibilità per i giovani di abilitarsi.

4. Che cosa si può fare? Anzitutto confermare quello che la legge già prevede: la distinzione della abilitazione dal reclutamento e dalla immissione in ruolo. Abilitarsi non significa necessariamente avere il ruolo, i due momenti sono e devono essere separati. Ciò consente di abilitare con margini più ampi, necessari ad una procedura che non si trovi improvvisamente senza aspiranti. Gli abilitati potrebbero poi entrare a far parte di “albi regionali” (senza alcuna formazione di graduatorie, rivelatesi a sufficienza rovinose), dai quali le scuole possano attingere direttamente i docenti tanto per le supplenze temporanee o annuali, quanto per le immissioni in ruolo con proprio concorso di istituto o di reti di istituto. Perché una simile prospettiva diventi possibile occorre evidentemente mettere mano a una vera e propria riforma del reclutamento dei docenti, che eviti gli automatismi del passato.

Se nel frattempo, per l’immediato, si dovesse o volesse ricorrere alla classica macchina dei concorsi ordinari, che prevedevano come requisito di ammissione la sola laurea (DM 39 del ’98), si rispetti almeno la norma che riserva il 50% dei posti ai vecchi abilitati inseriti nelle graduatorie e il 50% ai nuovi laureati.

Fermi la macchina, Ministro, ci ripensi!

 

CLDS (Coordinamento Liste per il Diritto allo Studio)

Milano, 30 giugno 2011

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