Per i ragazzi di terza media questi sono stati i giorni dedicati ai colloqui interdisciplinari, atto conclusivo che porrà fine agli esami.
Qualunque osservatore esterno avrebbe visto questa scena: una decina di professori seduti attorno a un tavolo e ogni trenta minuti un ragazzo o una ragazza che si siede, estrae “quadernoni” di materia e comincia a parlare della sua tesina d’esame, che spesso ha stampato e rilegato con grande cura.
Dalla tensione che si legge sul volto del ragazzo (ma anche dal camminare nervoso del padre nel corridoio e dal parlare concitato della madre) si capisce che siamo di fronte al “primo vero esame della vita”, una prova nella quale il giovane candidato si gioca tanto (forse quasi tutto) della sua giovane vita.
E i prof, seri e attenti, ad ascoltare e a interloquire con ognuno di quei loro (ancora per pochi minuti) alunni, ben conoscendo di ciascuno di essi l’impegno e l’interesse profusi per la loro materia che, tranne per pochi casi, solitamente sono in difetto.
Trenta minuti per riuscire a ripetere bene argomenti già affrontati in classe ed effettuare collegamenti tra le varie materie; trenta minuti al termine dei quali i prof danno un voto in merito alla conoscenza e all’approfondimento evidenziati.
Insieme alle prove scritte (poche? tante?), anche questo è un atto utile e necessario. È bene che ci sia, che tutti gli attori in scena siano seri e convinti, e che tutto proceda per il meglio.
…Ma c’è un evidente errore di prospettiva. La stessa scena va vista da un’altra parte, altrimenti ci perdiamo il più bello. Si tratta di ciò che quest’anno mi ha sorpreso negli esami con i miei alunni.
Cosa è accaduto nei colloqui di questi giorni? Il ragazzo raccontava qualcosa che il prof ha spiegato durante l’anno, ne evidenziava alcuni particolari, indicava dei collegamenti con altre parti; solo che in più diceva anche quello che maggiormente gli sta a cuore: che cosa di quell’argomento lo aveva colpito, come e in che misura era scaturita quella vibrazione che poi non lo ha lasciato tranquillo e che invece ha catalizzato la sua sete di conoscenza, di cercare e scoprire, capire e paragonare i pezzi della realtà, provare su di sé quel nuovo punto di vista che “tiene insieme” le cose.
E allora ci si rende conto della grandezza di questi piccoli uomini e di queste piccole donne, quando spiegano che a loro interessa parlare della necessità di andare “oltre l’apparenza delle cose”, o di quanto sia bello vivere e suonare come Maria Judina; di come il bacio di Klimt fermi la bellezza di un gesto umano, o di quanto il gioco del rugby sia come la vita: fatica e fango, ma insieme a difendere e attaccare e, soprattutto, con il “terzo tempo”; della felicità di praticare ginnastica artistica, o dell’essere catturati dalle note mentre si suona il violino (anche se sono stati necessari anni e anni di fatica); della grandezza dell’espressione poetica “Sempre caro…” che porta a chiedersi di chi e di che cosa si possa dire altrettanto nella propria vita, e del fascino della genialità umana, che conduce a conoscere cosa ha inventato Corradino D’Ascanio; del sapere con certezza dove si trova la Tanzania perché lì vivono quattro fratellini orfani adottati a distanza, o dell’interesse per l’agricoltura, semplicemente perché i genitori hanno un’azienda agricola (e dei quali si cominciano a capire le fatiche ma anche le soddisfazioni).
Ecco, in questi e in tutti gli altri colloqui d’esame è accaduto proprio questo: ragazzi che hanno parlato di sé e di ciò che è cominciato a divenire interesse per la vita e passione per la realtà. E dentro questo raccontare, agli adulti che hanno di fronte (genitori compresi) hanno chiesto per quali passioni vibri il loro cuore, cosa renda interessanti le loro giornate. È uno dei momenti in cui la scuola non è staccata dalla vita; anzi, la vita stessa dei ragazzi si prende tutto ciò che è insegnamento e studio e, attraverso ciascuno di essi, “fa scuola”. A ben guardare, all’esame “l’insegnante” è il ragazzo e i prof sono gli “alunni”; i quali – come tutti gli alunni del mondo – hanno a disposizione solo due scelte: stare attenti a quello che viene detto e spiegato (e così crescere) oppure fare altro (sperando che la mattina dopo ci sia un buon compagno che passi gli appunti).
Questa prospettiva, a mio parere, ridà consistenza alla realtà degli esami di terza media e chiarisce quale possibilità di esperienza c’è in gioco; e quindi perché sia valsa la pena continuare a lavorare (e studiare) fino a fine giugno.
Quasi dimenticavo. L’insegnamento più grande è stato quello di un ragazzo che al termine del colloquio si è alzato, ha stretto la mano a ciascun insegnante e ha ringraziato per tutto quello che hanno fatto per lui durante i tre anni; solo che si è commosso e non è riuscito a trattenere le lacrime. Nel suo ringraziare ha fatto vedere il gesto più umano che si possa compiere: essere grati per tutto il bene e il buono che nella vita si sono ricevuti. Esame superato, direi, a pieni voti.
(Sergio Fanni, Istituto San Girolamo Emiliani, Corbetta, Milano)