Entrata in vigore nei primi giorni dell’anno in corso, la riforma universitaria ha intrapreso la lunga marcia per la modernizzazione dell’università italiana, che pure è per molti aspetti una delle eccellenze del Paese. Gli attori di questo cammino hanno da quel momento iniziato a conoscerla, comprenderla ed attuarla, incontrando resistenze e problemi, il più rilevante dei quali è senz’altro l’incertezza su svariati elementi chiave del disegno riformatore, visto che la legge prevede la definizione in progress di molti aspetti chiave.



Il tutto va fatto in fretta. Nulla è infatti più distruttivo che stare in stand by, nell’attesa di conoscere i propri destini. Questo vale soprattutto per il corpo docente delle università, che ancora non sa come si procederà al reclutamento delle giovani leve e agli avanzamenti di carriera mentre è noto che, sul piano economico, anche per i docenti in ruolo si prospetta il blocco di scatti e retribuzioni che pesa soprattutto – va detto – sui ricercatori neoassunti. Essi non avranno per molto tempo scatti stipendiali e si devono accontentare di retribuzioni davvero modeste, soprattutto se comparate ai tempi di attesa che hanno subito per entrare nei ruoli.



Nel frattempo le Università si stanno redigendo i nuovi statuti con non poche resistenze, volte a non alterare troppo lo status quo; basti pensare al problema della sopravvivenza delle facoltà, che la riforma abolirebbe ma che in molti casi finiranno per sopravvivere trasformate in dipartimenti. Basti pensare, ancora, alla configurazione dei nuovi Consigli di amministrazione, la cui composizione è tutt’ora poco chiara.

Dal canto suo, il ministero procede. Le bozze predisposte devono ricevere l’approvazione ora delle Regioni, ora del Consiglio Nazionale Universitario, ora del Consiglio di Stato o della Corte dei Conti. E ognuno di questi passaggi finisce per essere luogo di negoziazione, che può anche modificare sensibilmente i contenuti. Un esempio è dato dal decreto legislativo per la riforma del diritto allo studio: regioni, studenti, esperti, rappresentanti del ministero delle Finanze siedono al tavolo preposto alla stesura delle normative, che dovranno essere poi validate dalla Conferenza Stato-Regioni per diventare effettive mentre assai incerta resta la modalità di finanziamento delle nuove borse di studio, cosa che – come è evidente – è tutt’altro che secondaria anche per poter configurare in modo adeguato la normativa sostanziale.



Analoga la sorte delle norme sul reclutamento: da tempo girano tra i docenti i documenti predisposti dal CUN con i requisiti per la formazione delle commissioni e per i criteri di valutazione della produttività scientifica dei candidati, anche questo un elemento non secondario del disegno normativo, i cui tratti restano per ora ancora molto incerti.

Questo è il contesto in cui si colloca la recente conferenza stampa del ministro Gelmini che ha messo in luce come il cammino di riforma sia molto avanzato, con 30 su 38 decreti sottoscritti (e in attesa di completare il processo volto a renderli effettivi) e altri previsti per ottobre. Quanto alle fonti di finanziamento, da un lato esse sono sempre più orientate a premiare le università meritevoli ma, dall’altro, forse non resisteranno ai tagli previsti per tutto il settore pubblico, come non ha mancato di rilevare il presidente della Conferenza dei Rettori.  

Interessante l’annunciato incremento degli assegni di ricerca, che sono il primo step del percorso di reclutamento, dopo la fine del dottorato di ricerca: è noto infatti che si rischia in questo settore di perdere per strada i migliori, visto che anche 20mila euro l’anno lordi (rispetto ai 16.500 del passato) non è il massimo per chi dovrebbe essere la promessa della comunità scientifica italiana. Bene, dunque, che siano incentivati a restare, soprattutto come segnale di valorizzazione dei giovani e dei bravi. Occorre continuare su questa strada: le finanze del nostro Paese sono in una situazione drammatica le cui conseguenze non devono però ricadere su chi rappresenta il nostro futuro.