In futuro scriveremo ancora a mano? La notizia è venuta nei giorni scorsi dall’Indiana. Il Dipartimento per l’educazione di Indianapolis (Indiana, Usa) ha introdotto in via facoltativa nelle scuole dello Stato la possibilità di insegnare a scrivere usando non più carta e penna, ma la tastiera del pc. Una «novità» che forse non ha colto tutti di sorpresa, data la diffusione e l’uso dei computer fin dall’infanzia, anche se diventare grandi senza saper tenere una penna tra le dita sembra ancora inconcepibile. Ancor prima di dividersi, come spesso accade in questi casi, tra innovatori e tradizionalisti, abbiamo chiesto a Lorenzo Magrassi, neurochirurgo presso la Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia, tra i massimi esperti nel campo delle strutture cerebrali legate alla scrittura, di aiutarci a capire.
Professore, che cosa accade in noi quando scriviamo?
È un atto molto complesso di cui conosciamo solo in parte i meccanismi che lo controllano. Sappiamo che l’azione dello scrivere è strettamente legata all’azione del parlare o comunque del linguaggio simbolico, dato che i pazienti che hanno subito delle lesioni nei centri del linguaggio in sede frontale e in sede temporale generalmente perdono nel contempo la capacità di scrivere.
Cosa può dire alla luce della sua conoscenza in questo campo?
Che esistono però delle altre aree del cervello, in particolare nella sede parietale e poi ancora nel lobo frontale, ma diverse dall’area di Broca, che sono più specificamente dedicate alla scrittura. Si possono avere pazienti con alterazioni nella loro capacità di scrivere in corsivo rispetto alla loro capacità di scrivere in stampatello; pazienti che hanno contemporaneamente queste alterazioni, oppure pazienti che hanno alterazioni soltanto nella capacità di scrivere mediante una tastiera rispetto alla capacità di scrivere con una biro o un matita…
In altre parole, dottore?
Esistono dei meccanismi che si distinguono in centrali e periferici e generalmente si attribuisce tutto ciò che non altera la comprensione e la produzione del linguaggio a meccanismi di tipo periferico, sempre contenuti all’interno del sistema nervoso centrale, che possono essere immaginati più legati a centri dedicati all’esecuzione del segno grafico. In realtà la questione è più complessa.
Sta dicendo che conosciamo ancora poco?
Sì. Per esempio negli ultimi anni si è trovato, sulla base di tecniche come la risonanza magnetica funzionale e dei risultati degli interventi neurochirurgici fatti su pazienti svegli, che questa distinzione così rigida tra processi centrali e processi periferici in realtà non è così vera. Esistono delle regioni del cervello la cui alterazione provoca degli errori sia in processi che hanno a che fare con la generazione del linguaggio, e in particolare del linguaggio scritto, sia nella generazione dei gesti… I meccanismi che controllano la nostra capacità di scrivere sono complessi e solo parzialmente conosciuti.
È vero che scrivere sviluppa in noi anche altre abilità?
Certamente. Intanto non dobbiamo dimenticare che il nostro modo di scrivere l’alfabeto è limitato a una fetta molto piccola della popolazione umana. Ci sono altri modi di scrittura che sono altrettanto funzionali e validi e che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri: basti pensare al cinese o al giapponese, che sviluppano ugualmente, pur partendo da presupposti completamente diversi, le capacità dell’individuo.
Ma sempre di scrittura si tratta, o no?
Sì, ma il tipo di meccanismi che sottendono la generazione dei segni ideografici cinesi è diverso dal nostro modo di scrivere. Lo si vede bene soprattutto nel caso del giapponese, che presenta due modi di scrivere, uno sostanzialmente sillabico, l’altro ideografico. Sono state mappate regioni del cervello la cui funzione sembra più importante per la scrittura di tipo ideografico rispetto all’esecuzione della scrittura di tipo sillabico.
Ma quali conclusioni si possono ricavare da tutto questo?
Esiste una gerarchia estremamente complessa di siti, all’interno del nostro cervello, che collaborano tutti insieme a quell’unico atto tipicamente umano, che una volta imparato sembra a noi così naturale e semplice, che è l’atto della scrittura.
Perché la nostra calligrafia è unica?
Questo ha a che fare più con l’esecuzione dei movimenti e con la nostra capacità di attrezzare differenze all’interno della calligrafia – quindi con l’attenzione che porgiamo all’interpretazione -, piuttosto che con un fenomeno peculiare. Se noi guardassimo con altrettanta attenzione alla capacità di un incisore, per esempio di un orafo, di incidere lo stesso anello, ci accorgeremmo che ogni esecuzione dell’atto è distinguibile e facilmente assegnabile a un individuo piuttosto che a un altro. Ugualmente, considerando questa volta il singolo individuo, si può vedere come sia la calligrafia che l’esecuzione di qualsiasi gesto manuale, nel tempo sia mutevole.
È perché la produzione del segno grafico è in diretta connessione con la nostra personalità?
Sono influenze peculiari non solo del segno grafico, ma di qualsiasi nostro azione che comporti un’alterazione dello spazio circostante. Noi siamo abituati a leggere in maniera precisa ed estremamente analitica ciò che selezioniamo culturalmente come gesto importante, come nel caso della scrittura, ma tutti i nostri movimenti anche banali, come può essere il legare dei nodi, sono peculiari ed unici oltre un certo livello. Le fluttuazioni legate all’individuo dipendono dall’imprecisione del sistema di codifica motorio.
Se si sostituisse la scrittura a mano con la tastiera si perderebbe qualcosa?
Certamente si perderebbe la capacità di fruire di un utilissimo mezzo per tramandare il nostro pensiero senza la dipendenza completa da un sistema elettronico. Si perderebbe anche la destrezza dei movimenti che viene sviluppata con la scrittura. Credo però che questo aspetto della scrittura possa essere sostituito da altri esercizi e da altre motivazioni. In fondo anche un analfabeta può raggiungere notevoli profondità intellettuali senza essere necessariamente in grado di scrivere. Moltissime persone utilizzano non solo caratteri, ma anche concetti, e quindi generazioni di circuiti cerebrali diversi, per raggiungere lo stesso scopo: la trasmissione del pensiero attraverso un oggetto esterno a noi.
In ambito educativo si è diffusa l’espressione di «nativo digitale». Esso sembra suggerire che i nuovi media non solo stabiliscano un diverso contesto, ma abbiano creato i presupposti per una trasformazione della mente. È così?
L’unica base razionale del fenomeno che lei ha così descritto è quello di osservare che una persona che ha utilizzato il computer fin dai primi anni di vita più facilmente lo userà per vivere, per lavorare, per trasmettere le proprie idee. Che a questo corrisponda un cambiamento nell’organizzazione della struttura cerebrale nessuno è in grado di mostrarlo, anche perché le nostre conoscenze sull’organizzazione cerebrale sono relativamente limitate. Non sappiamo se prevale un cambiamento nella funzione di certe aree. Non dobbiamo dimenticare che il «nativo digitale» vede il computer come un oggetto. Nulla sa del «come» il computer funziona e perché, esattamente come accadrebbe per un altro oggetto complesso. Direi che il caso dei nativi digitali è una questione di esposizione e di educazione ambientale molto più che di un cambiamento «profondo», comunque lo possiamo pensare.