Finiti gli esami di Stato. Quelli che un tempo si chiamavano esami di maturità.
Il linguaggio comune, tuttavia, continua a chiamarli così, associando alla conclusione degli studi superiori l’idea di maturità: d’altra parte i bambinetti che hanno varcato la soglia della scuola a quattordici anni adesso guidano la macchina, vanno a votare, si apprestano a decidere la loro vita lavorativa e affettiva.
Saranno pronti, decisi a entrare nel mezzo della vita, o scapperanno impauriti dinnanzi alle inevitabili difficoltà, rifugiandosi in uno dei tanti ricoveri consolatori che il potere offre loro con calcolata arguzia? Mi torna in mente una frase di O. Wilde: “There is something tragic about the enormous number of young men there are in England at the present moment who start life with perfect profiles, and end by adopting some useful professions. Grosso modo: c’è un che di tragico nell’enorme numero di giovani che oggi in Inghilterra iniziano la vita con un profilo perfetto e finiscono per scegliere una delle tante professioni utili.
La domanda, espressa con la semplice efficacia d’un tempo, rimane questa: la scuola li ha preparati alla vita?
Maturità è tutto, diceva Shakespeare. Essere pronti, vigilanti, è tutto, giacché l’uomo non può permettersi distrazione. La selva oscura ingoia chi procede pien di sonno.
L’uomo deve aspettare con pazienza il suo momento di uscire dal mondo, come aspetta il momento per entrarci” (Re Lear). È necessario un tempo che disponga l’intelligenza e la libertà a percorrere il profilo perfetto del destino umano. Siate perfetti: questa, credo, è la formula della maturità. Come Manzoni fa dire alla sua Ermengarda: “quella via, su cui ci pose il ciel, correrla intera convien, qual ch’ella sia, fino all’estremo”.
Ma senza significato non c’è tempo, ci avverte Eliot; gli anni trascorsi a scuola sono tempo se in essi l’urgenza amorosa con cui il significato della vita preme su di noi diviene esperienza, drammatica considerazione dello spessore dell’essere e non discorso acriticamente propinato o rifiutato.



Prima della conclusione dell’anno ho domandato conto dell’utilità dei loro anni di liceo ad alcuni ex studenti. Tra le risposte che ho avuto ne riporto due che mi paiono eloquenti.
Donato C., oggi don Donato, prete da qualche anno nel milanese, aveva iniziato il suo colloquio di maturità (è il caso di dirlo) parlando di Gaudì e della catenaria: “Guardando Gaudì e la catenaria ho scoperto un modo straordinario di usare la ragione umana. L’uomo lotta contro la gravità, contro il suo limite, da sempre, perché la gravità ti spinge verso il basso, mentre l’architettura sale. Ma Gaudì pensava: la gravità viene da Dio. Come faccio a salire rispettando la volontà di Dio? Se studio questa pietra, ne assimilo il carattere, tra 5 o 50 anni diventerà qualcosa che sale. È successo, ha trovato soluzioni per cui è la gravità a tenere in piedi l’edificio. Non è solo tecnica. Noi abbiamo equivocato per secoli che cosa è l’intelligenza. Pensiamo sia convertire a forza la materia. O la gravità, o il limite, o la malattia, o i problemi familiari. Moltiplicando leggi e obblighi per trovare soluzioni. Ma da Gaudì impariamo la nostra vera intelligenza: obbedire alla realtà. Se obbediamo scopriamo una forza che ci permette non solo di vincere il nemico, ma di convertirlo nel nostro primo amico. È il massimo. Geniale”.
Giovanni C., oggi medico chirurgo: “Le domande di significato che riempiono la vita non sono una stranezza, ma ciò che mi accomuna ai grandi della storia, da Omero a Dante, da Michelangelo ad Einstein. Sono queste domande la mia grandezza. Credo che, tra tutte le cose che ho imparato al liceo, questa sia la più importante perché l’umano si costruisce nei rapporti e senza la coscienza di un’origine comune è difficile il rapporto: la realtà appare lontana, le persone degli estranei e noi ci sentiamo niente. Al liceo ho imparato questo fattore all’origine che vince la solitudine e permette di costruire insieme”.



All’inizio degli anni 70 padre Josef Zverina scriveva una memorabile Lettera ai cristiani d’Occidente (Ilsussidiario farebbe buona cosa a ripubblicarla, magari con una presentazione di questo straordinario sacerdote cecoslovacco) in cui faceva suo il monito di San Paolo ai Romani: “E non vogliate conformarvi a questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, affinché possiate distinguere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli è gradito, ciò che è perfetto”.
Mè suskèmatìzesthe. Non assumere gli schemi del potere che nelle sue molteplici metamorfosi riduce il respiro della realtà: così la scuola è tempo.
Un collega mi passa timidamente un biglietto che i suoi alunni gli hanno indirizzato prima dell’inizio degli esami: “Diventare adulti significa amare la vita, desiderare con passione ogni suo dettaglio. È questa la dinamica della conoscenza e il maestro è colui che ci introduce in questo rapporto d’amore”.
Mi pare un buon programma di lavoro.



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