Sono trascorsi 10 anni dall’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha introdotto ai massimi livelli di riconoscimento giuridico il principio della sussidiarietà in Italia.

Un principio, come è noto, di derivazione comunitaria, enunciato la prima volta nel Trattato di Maastricht (1992): “nelle materie che non rientrano nella propria competenza esclusiva, la Comunità potrà intervenire, alla stregua del principio di sussidiarietà, soltanto e nella misura in cui gli obiettivi prefissati non possano essere conseguiti in maniera soddisfacente dagli stati membri e possano, pertanto, in ragione dell’ambito o degli effetti degli obiettivi medesimi, essere meglio conseguiti dalla Comunità”. Ma cosa è cambiato, da allora, nel nostro paese  grazie all’accoglimento di questo importante valore?



Un sintetico excursus sul cammino delle scuole non statali potrà aiutarci a tentare di formulare una prima (sebbene parziale) risposta. A partire dagli anni 70, si è affermata, in Italia, una nuova forma di scuola non statale, promossa e gestita nel solco della grande tradizione della scuola cattolica, attraverso una progressiva diffusione di piccole cooperative di genitori pronte ad assumersi la responsabilità dell’istruzione dei propri figli gestendo scuole “pubbliche” di ogni ordine e grado.



Un vero e proprio movimento “dal basso”, generato dal desiderio di contribuire alla “costruzione” della persona attraverso un impegno diretto nell’ambito più decisivo della vita sociale, quello dell’educazione; un fenomeno, dunque, che rappresenta una chiara esemplificazione di protagonismo della società civile, in un settore delicato, difficile e nient’affatto remunerativo quale è quello dell’educazione/ istruzione.

Caratteristiche originali e innovative di tali esperienze erano un forte riferimento ideale e culturale all’esperienza cristiana, accompagnato però da una chiara impostazione imprenditoriale e dall’apertura al territorio di riferimento, nella consapevolezza di concorrere fattivamente al bene comune.



Molte di queste realtà, nate anche da carismi e ideali diversi (scuole ebraiche, steineriane, montessoriane, paterne, etc.), sono poi confluite in associazioni di scuole paritarie che coniugano passione educativa e alta competenza organizzativa/gestionale, per lo scopo comune che è la realizzazione integrale della persona. I frutti di questo impegno sono riscontrabili da chiunque, avendo generato una modalità assolutamente innovativa di fare scuola, che potrebbe essere assunta a paradigma per il rinnovamento di tutto il sistema nazionale di istruzione.

Diverse norme emanate dallo Stato hanno posto le premesse, in questi anni, per un riconoscimento e il sostegno a diversi livelli di tali esperienze, in un’ottica di effettiva sussidiarietà: partendo dalla L. 59/97 (legge “Bassanini”) che ha introdotto l’autonomia scolastica, passando per la L. 62/2000 che ha riconosciuto la parità scolastica fra scuole statali e scuole non statali (purché conformi, queste ultime, a determinati requisiti), fino alla L. 3/2001, con la revisione del Titolo V della Costituzione.

Non mancano esempi positivi di applicazione di queste norme, anche nei rapporti con alcune amministrazioni locali, consapevoli dei grandi vantaggi che queste opere comportano per la società civile, con un rapporto costi/benefici assolutamente irraggiungibile da qualsiasi servizio pubblico.

Malgrado ciò, dobbiamo amaramente constatarlo, a oltre dieci anni di distanza da tali importanti conquiste, ancora troppo poco è cambiato nella sostanza per le scuole paritarie e per gli Enti gestori che le hanno fatte sorgere. Tali realtà, infatti, restano discriminate economicamente e culturalmente, continuando a pagare lo scotto di una concezione fondamentalmente statalista della scuola italiana e di una radicata avversione culturale ancora presente nella società civile. Non mancano, addirittura, tentativi e pressioni per vanificare anche quei minimi spazi che si sono aperti in questi anni, come dimostra il referendum promosso ultimamente a Bologna (per fortuna giudicato in extremis non ammissibile) contro il finanziamento comunale alle scuole paritarie dell’infanzia, a favore dell’apertura esclusiva di sezioni comunali… Una vera sussidiarietà a rovescio.

Per non parlare, poi, della ormai cronica assenza di un sostegno economico “paritario” alle scuole “paritarie”, aggravato dai pesantissimi tagli ai già esigui finanziamenti, che rischiano di produrne la morte per asfissia.

Eppure, persino l’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, estensore della legge di parità in un governo di centrosinistra, ebbe a dire: “Si tratta dunque di superare una sterile contrapposizione ideologica oramai datata fra pubblico e privato e realizzare, con l’apporto di tutti, nuove esperienze di scuola

No, purtroppo la sussidiarietà è ancora un principio misconosciuto nel nostro paese e dunque poco praticato nei fatti, benché spesso tale parola affiori come riferimento fondamentale nei discorsi di tanti politici di destra e di sinistra. E mentre se ne tessono gli elogi, le scuole paritarie – e con esse tutti i soggetti della società civile che si spendono, vivono, agiscono per il bene comune al loro interno – stringono la cinghia al buco successivo e attendono tempi migliori… Ma verranno?

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