La recente manovra economica, trattando della “razionalizzazione della spesa relativa all’organizzazione scolastica”, prevede l’aggregazione in istituti comprensivi della scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I grado, “con la conseguente soppressione delle istituzioni scolastiche autonome costituite separatamente da direzioni didattiche e scuole secondarie di I grado”. Tali istituti compresivi, per essere autonomi (cioè con a capo un dirigente scolastico “effettivo”) dovranno contare almeno 1.000 alunni, ridotti a 500 per le piccole isole, i comuni montani, le aree geografiche “caratterizzate da specificità linguistiche”.
Posso dire per esperienza diretta che la “verticalizzazioni” (iniziate nel 1997 dall’allora ministro Berlinguer) non sono il sistema migliore, ma senz’altro il più comodo per ridurre il numero delle dirigenze. Oggi, se va fatto un sacrificio che fa guadagnare tanto (economicamente) e non rovina troppo (professionalmente), pazienza. Però si eviti di fare dei mostri.
Esempio per una grande città: Milano. La direzione didattica che dirigo non potrà più esistere; a 250 metri c’è una scuola secondaria di I grado, che non potrà più esistere. La mia primaria è di 2 plessi: 470 alunni nel principale, circa 210 nell’aggregato (a 750/800 metri); circa 680 in totale. La secondaria di I grado vicina ha circa 670 alunni in un solo plesso. Mettendole insieme, l’Istituto avrà circa 1.350 alunni: più che Comprensivo, Incomprensibile (e un po’ ingestibile).
Si può allora pensare a una ri-aggregazione delle scuole. Esempio: il plesso aggregato alla mia direzione attuale potrebbe essere ceduto ad un’altra scuola di circa 640 alunni distante 600 metri, che arriverebbe a 1.050 – sopra la quota minima richiesta – a patto di scorporarne la sezione staccata che sta a 1 km per annetterla ad un’altra direzione didattica limitrofa, e così via. Il mio nuovo IC avrebbe 1.150 alunni – sempre tanti, ma non troppi – mettendo però in moto una reazione a catena.
Questo è l’esempio di come si potrebbe gestire il “dato” messo in campo dalla manovra finanziaria, applicandola così com’è. Si può fare; ma si può anche fare di meglio.
C’è o no l’autonomia delle Direzioni regionali e delle Regioni (e quella delle scuole, che tralascio per un istante per puro amor di patria)? Sì. Allora una soluzionepotrebbe essere questa:
1. ogni Regione, in base al numero degli alunni delle scuole del I ciclo, può calcolare, provincia per provincia, quante scuole autonome di quel grado può avere sul suo territorio;
2. se il numero delle scuole “sostenibili” nel territorio supera il numero delle scuole già operanti sul territorio, non è necessario intervenire per correggere la situazione;
3. se il numero delle scuole sostenibili nel territorio è inferiore a quelle che già vi operano, si procede all’accorpamento delle direzioni didattiche e delle scuole secondarie di I grado in nuovi Istituti Comprensivi;
4. ogni 3-5 anni si rifà il conto e si interviene con gli accorpamenti eventualmente necessari per non superare il numero delle scuole sostenibili.
Così chi ha “già dato” non sarebbe penalizzato due volte, e chi finora non ha fatto quel che doveva si metterà finalmente “a norma”. Perché è ora di finirla con le norme che c’è chi le attua e chi no, tanto va bene lo stesso: paga Pantalone! Le norme sulla razionalizzazione ci sono da 11 anni, ma troppi non le hanno volute applicare. Risultato? Ripianiamo, e: tutti uguali (adesso! e prima no?).
E poi ci sarebbe la soluzione madre di tutte le soluzioni. Semplice ed economica. Dare direttamente alle scuole (a tutte le scuole del sistema scolastico nazionale, come definito dall’art. 1 della Legge 62/2000) la gestione dell’impresa educativa, con un finanziamento globale per “quota capitaria”: tanti alunni hai, tanti soldi lo Stato ti dà, e ti arrangi. Con qualche giusto correttivo per la gestione delle situazioni più delicate: disabili, aree a rischio, immigrati extra-comunitari, nomadi, pluriclassi, eccetera (ma poco eccetera oltre a quanto detto). Il contratto con gli insegnanti, scelti da un elenco di “abilitati alla professione”, viene stipulato dalla singola istituzione scolastica, nel rispetto dei parametri previsti da un contratto-quadro collettivo. E per gli edifici ci pensa il proprietario: che sia pubblico – Comune o Provincia – o privato. Sogni?