Mi immagino la programmazione stagionale di una redazione: c’è il Natale, Sanremo, lo scudetto, Ferragosto, inesorabilmente uguali a se stessi; articoli ed infografiche possono essere preparati quando si vuole, basta sistemarli al momento. E poi c’è l’altro epocale evento: gli esami di maturità. Pagine di vuoto rifrullato, come quelle dei tiggì, o approfondite e “di servizio” come quelle de Ilsussidiario.net, ma tante pagine comunque. Gli esami da 12 anni non si chiamano più così e, strutturalmente, hanno anche cambiato natura, ma guai a cambiare le frasi stereotipe, salvo inventarne altre come “il temuto quizzone”.
L’esame di Stato, in questa simpatica vulgata, pare una delle poche esperienze che i ragazzi possono condividere con le generazioni precedenti, anche se il nonno portava tutto il triennio, papà si è fatto la versione short e il giovanotto si cucca la versione onnicomprensiva ma light. E via con la nostalgia, ma guai a togliercelo. Eppure… eppure non è un errore di percezione?
Nella generazione dei nonni era solo un italiano sui venticinque che, alla fine di un liceo o di un istituto tecnico, arrivava a quel diploma; fra gli altri, erano già pochi quelli che conseguivano almeno una qualifica professionale. In realtà sono quindi pochissimi i maturandi attuali che possono fare quel confronto generazionale. Penso si possa partire da qui per rivedere cosa ci sia da tenere e cosa da cambiare, in una logica che ha addirittura valore costituzionale ma di cui si rischia di perdere il senso.
Nel ’48, quando si stabiliva che “i capaci e meritevoli” dovessero poter raggiungere i livelli più alti degli studi, era già un sogno il diploma di terza media. Quel comma dell’art. 33, aspramente contestato per il suo retrogusto totalitario e, non dimentichiamolo, per le già evidenti distorsioni che portano a studiare non per imparare ma per il “pezzo di carta”, aveva almeno una giustificazione nel sancire il livello di preparazione del candidato, con qualche reale vantaggio democratico e liberale. Ai pochi che sgobbavano fino a 19 anni in una scuola gestita o controllata dallo Stato, la benedizione di quello stesso Stato garantiva l’uguaglianza nei livelli di partenza; la generazione dei nonni, figli in gran parte del proletariato, ne ha tratto la possibilità di riplasmare un’Italia in ginocchio.
Il rimescolamento delle commissioni era forse l’unico sistema per consentire lo scambio tra esperienze didattiche diverse; sì, costava, e la serietà delle commissioni non ne discendeva per grazia divina, ma anche in questo i piccoli numeri tornavano utili.
Ma con la forzata creazione, in due o tre lustri, della scuola superiore di massa, cui non si chiedeva più di essere selettiva fra i pochi, ma accogliente per molti o magari per tutti, sarebbe stato necessario riconsiderare anche il feticcio dell’esame e del conseguente titolo. Che oltretutto era uno dei bersagli dei contestatori, prima che mettessero su pancetta e che Venditti e soci scrivessero le canzoni con la lacrimuccia intellettual-fighetta. Quando il sistema aveva una dimensione di alto artigianato elitario ci si poteva illudere che quell’esame attestasse una qualche forma di “maturità”; la catena di montaggio della scuola di massa doveva perlomeno abbandonare questa valenza, o supponenza, e limitarsi ad attestare la conformità di un prodotto a un qualche standard nazionale.
Ecco, l’ho fatto: ho usato un linguaggio aziendale. Vade retro, dice l’undicesimo comandamento, la scuola non deve essere un’azienda! Evidentemente i metodi di lavoro, di organizzazione, di controllo di un’azienda, cioè quelli inventati dall’homo faber che ha il dovere e la soddisfazione di costruire la sua opera sfamando la propria famiglia, non possono che essere antiumani, antisociali, anticulturali. Ma signori, ci accorgiamo che mentre la scuola, fra poderose elucubrazioni, non sapeva inventare che qualche piccola variante sullo schema secolare di due/tre scritti e un orale cui attribuire soggettivamente due numeretti, il mondo attorno ha inventato una intera scienza della prova e della valutazione, verificandola in pratica, confutandola, correggendola?
Vade retro ai bollini blu, dice il supercilioso, che però non mangia all’agriturismo se non vale almeno cinque melanzane sull’apposita guida. E poi stiamo delle ore a pensare se il certificato del torneo di burraco valga più o meno di mezzo punto di credito. Finiremmo a studiare per il test! Ma cosa facciamo da decenni se non insegnare in funzione dell’esame, tutti pronti a venerare come categorie kantiane il saggio breve e le tipologie a-bi-ci, ogni volta che una circolare ministeriale propone una variante sul tema ma si dimentica di darcene le specifiche? E poi via a regalare i 60-62 a chi fa scena muta, non bocciarlo se no fa ricorso…
Qui diventa importante riflettere su due aspetti della questione, espressi negli articoli molto belli che hanno scritto nei giorni scorsi Mereghetti e Grimoldi. Vale la pena di conservare l’esame, e perché, e come valutarlo?
Grimoldi si concentra sui casi in cui quei cinque anni mostrano un vero, profondo percorso di maturazione, di rapporto tra le persone sedute ai due lati della cattedra. Il suo discorso non è sul valutare una prestazione, ma sul fatto che la tensione per l’esame crea un climax di empatia, porta al reciproco riconoscimento fra chi era già adulto e chi sa di esserlo diventato e così riconosce la sua strada. Non pensa alla massa, ma a quel singolo studente. Qualunque insegnante ha benedetto il Cielo, la volta che ha avuto la fortuna di uno di questi incontri: ma serve l’esame, perché succeda? Non si potrebbero inventare forme alternative anche per questo rito di crescita?
Dall’altro lato, dice Mereghetti, se di ogni studente dobbiamo valutare l’insieme del percorso, non ha senso pensare a meccanismi di valutazione ineccepibili sulla carta, ma sbracati nella pratica, se non aperti agli illeciti. La prestazione dipende troppo dalle circostanze: ogni grande calciatore ha sbagliato un rigore decisivo, tante schiappe hanno segnato il gol della vita, e certe commissioni fanno rimpiangere l’arbitro Moreno. Via il voto, allora: possibile che si possa riprovare qualunque esperienza non riuscita, dal matrimonio in giù, e solo il voto di maturità resti inappellabile?
Ecco, in teoria mi piace. Ma allora a cosa serve l’esame? O si pone una soglia di idoneità, chi è sopra passa chi è sotto no (ma anche qui si devono fissare criteri di valutazione, e allora devono essere trasparenti, e siamo daccapo), oppure viene a cadere l’ultimo stimolo della tensione agonica, proprio quella che fa sì che i candidati di Grimoldi provino e riescano a superarsi. Todos caballeros? Dalle gare non competitive non nascono i campioni.
E allora perché non arrivare alla logica conseguenza, via l’esame, via il valore legale? Risparmiamo quei soldi, che per il commissario sono un’elemosina ma un salasso per l’erario. Attestiamo che uno ha superato con profitto un corso quinquennale, diamo eventualmente un riconoscimento a chi abbia un percorso eccezionale: fine. Chi vuole valutare cosa sa lo studente, lo valuti in ingresso secondo i propri criteri: per il lavoro, per questo o quel corso di laurea.
Se l’esame deve esserci, sia una certificazione aggiuntiva, volontaria, severa. Pochi candidati da ogni classe? Quelli che ci credono. Con pochi commissari, anche loro volontari e ben pagati, e tutti esterni e che non sappiano proprio nulla del candidato e del suo percorso. Magari spostando i candidati in una città diversa, così il rito di passaggio starebbe nel partire e tornare: come a Sparta, o com’era la naja.
Non sarebbe più l’esame di maturità? Beh, tra giugno e luglio potremmo scrivere delle paginate su ti ricordi quando c’era…