Nelle pagine de Ilsussidiario.net si sono confrontate nei giorni scorsi prospettive diverse sul tema della scuola, non circa la sua struttura organizzativa – tema anch’esso comunque importantissimo – ma a riguardo del metodo, dei fini e dei risultati della didattica.
L’importante punto di vista di Carlo Fedeli ha raccolto e sviluppato le riflessioni provenienti da domini culturali diversi: quella di un matematico come Giorgio Bolondi e quella di un grande storico della lingua italiana, Maurizio Dardano. Emerge dalle loro riflessioni una sorprendente convergenza che mette in luce almeno quattro fuochi tematici sulla risposta da parte degli studenti ai metodi didattici che vengono loro proposti: l’incapacità di cogliere il tutto pure a fronte di un’analisi capillare del dettaglio; l’ingombrante presenza di un metodo che fa dello schema non una tecnica ma un recinto claustrofobico che impedisce di leggere “oltre e dentro” la realtà, sia essa biologica o storico-letteraria; la tendenza ad accedere solo a narrazioni frammentate e frammentarie, eredità presunta o vera dei ritmi imposti dalle nuove fonti di “testo”: internet e televisione, dove l’impatto commerciale (leggi: pubblicità) prevale sulla tenuta del tessuto narrativo.
Non ho alcuna autorità per giudicare questi punti di vista, che per altro condivido totalmente e ho in parte difeso indipendentemente proprio su queste pagine, e in un certo senso ho avuto il dubbio di non riuscire ad offrire alcuna riflessione aggiuntiva a questo dibattito così esauriente. Ho pensato tuttavia che esiste almeno un altro punto di vista che potrebbe contribuire a questa riflessione. Questo punto di vista deriva direttamente dalla mia esperienza di ricercatore dei fondamenti biologici del linguaggio umano, un dominio a cavallo tra le neuroscienze e la linguistica formale. È tenendo conto di questa prospettiva che ho accettato il generoso invito della redazione e mi accingo a contribuire con due riflessioni minime su due punti distinti ma non scorrelati. Andiamo con ordine, partendo dalla linguistica formale.
La linguistica formale, a partire dagli anni 50 del secolo scorso con il lavoro inaugurato da Noam Chomsky, ha mostrato con la forza dei teoremi che ingabbiare il linguaggio umano in modelli statistici non permette nemmeno di sfiorare in modo corretto due delle caratteristiche più sorprendenti degli individui della nostra specie: la creatività del linguaggio (intesa come uso potenzialmente infinito di mezzi finiti) e l’apprendimento spontaneo delle grammatiche nei bambini.
Forti delle convinzioni ideologiche che facevano della regolarità statistica l’ossatura delle grammatiche, costruttivismo e comportamentismo riducevano infatti l’apprendimento ad una reazione alla struttura del mondo: un’imitazione inconsapevole da parte dei bambini o un’istruzione esplicita da parte degli adulti. Tutto questo si è rivelato illusorio: in realtà si finiva con lo scaricare sulla struttura dello stimolo la ricchezza del linguaggio e quindi solo a spostare il problema altrove. La sintesi chomskyana, nelle sue celebri parole, arriva invece a sostenere che “gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale … con una capacità di formulare ipotesi di natura e complessità sconosciute”. L’apertura verso il riconoscimento del sostanziale mistero del linguaggio da parte di Chomsky coincide di fatto con la nascita dello studio dei fondamenti biologici della struttura del linguaggio. Da allora i linguisti, al pari dei fisici, vanno a caccia delle “particelle elementari” nelle quali scomporre i dati complessi delle grammatiche.
D’altro canto questa rivoluzione metodologica, empirica e teorica ha fornito di fatto l’impulso concreto per l’indagine dei correlati neurali del linguaggio. In parole semplici, finché si utilizzavano nozioni complesse come le “regole grammaticali” non era possibile nemmeno iniziare l’indagine sul funzionamento delle reti neuronali: ora che invece si è passati alle “particelle elementari” (per quel poco che si sa, s’intende), questa ricerca non solo è stata resa possibile ma ha ad esempio mostrato che il fatto che esistano solo alcuni tipi di grammatiche non è un fatto culturale e arbitrario ma l’effetto dell’architettura neurobiologica della quale siamo dotati prima di ogni esperienza.
Cosa ci dice questo stato di cose sulla questione centrale che è stata affrontata su queste pagine? Intanto chiariamo immediatamente qual è il dominio di pertinenza: si tratta della consapevolezza di come funziona il nostro codice di comunicazione, cioè dello studio della grammatica. Non è assolutamente una cosa da poco. Intanto per un motivo immediato, padroneggiare consapevolmente il linguaggio offre vantaggi immediati ad ogni livello (sia sul piano del ragionamento sia su quello della comunicazione quotidiana in ambito lavorativo ma non solo); inoltre, conoscere la struttura della propria lingua è il requisito fondamentale per impararne un’altra da adulti e tutti sappiamo che, a un certo livello, l’incapacità di accedere direttamente all’inglese costituisce oggi una barriera insormontabile alla formazione aggiornata e a occasioni di lavoro e di confronto. Spesso a un adulto che mi chiede consiglio su quale testo utilizzare per iniziare ad imparare l’inglese suggerisco una buona grammatica dell’italiano: se non si conosce la mappa del proprio codice, infatti, non c’è speranza di apprenderne un altro, salvo rare eccezioni, come quei pochi dotatissimi che imparano a suonare uno strumento da soli.
E una volta chiarito questo dominio, vale secondo me la pena di evitare un errore madornale che, invece di risolvere o almeno attenuare i problemi dei quali si parlava, potrebbe acuirli: far studiare a livello scolastico la linguistica formale sarebbe come affidare un atleta di salto con l’asta ad uno studioso di teoria della gravitazione. Certo, qualche consiglio potrebbe forse darlo, ma quel che serve davvero è la pratica consolidata della tradizione e dell’allenamento in campo. I modelli grammaticali tradizionali sono dunque senz’altro preferibili ad esperimenti didattici basati sulle nuove teorie. Il risultato ricorderebbe quei tentativi goffi, tipici degli anni settanta, nei quali qualcuno pensò di sostituire l’insegnamento degli schemi delle operazioni aritmetiche di base con modelli insiemistici: di nascosto, in famiglia, chi poteva si faceva insegnare a fare le divisioni “con due cifre al divisore”. Le neuroscienze e la neurolinguistica servono e servono eccome per esplorare mente e cervello, ma nella didattica della scuola occorre invece tenersi ben saldi sui metodi e schemi filtrati e messi alla prova da tradizioni bimillenarie, tra l’altro sorprendentemente più o meno coeve alla canonizzazione della geometria euclidea.
Mi rendo ben conto che sembra sia uscito fuori tema: se uno dei problemi centrali della didattica nella scuola è aiutare gli studenti a “cogliere il tutto” dietro la somma dei particolari cosa c’entrano le neuroscienze e la neurolinguistica? Credo che c’entrino e c’entrino moltissimo perché si sta pericolosamente affacciando, spesso in modo subdolo, l’illusione che da questo dominio di ricerca arrivino invece risposte definitive, a cominciare in modo paradigmatico dal linguaggio, vera cifra distintiva della nostra specie. Non è vero: le neuroscienze, la neurolinguistica, la linguistica formale sono solo metodi, apparati teorici coi quali cogliere alcune proprietà salienti della realtà; chiedere ad esse delle risposte sarebbe come chiedere ad un cannocchiale di generare un panorama. Il panorama o c’è o non c’è: casomai occorre insegnare a desiderare di vederlo, il panorama, e a puntare gli strumenti nella direzione giusta, soprattutto mettendo in gioco la propria esperienza. Il senso del tutto, almeno quando si parla di linguaggio, si allontana se si delegano le risposte al metodo, anche se ammantato di scientismo, non perché si allontani il tutto ma perché si scambia il panorama con il cannocchiale e inevitabilmente si smette di desiderare.