È interessante l’idea di una “critica della ragione breve”. È interessante perché, proprio sul piano del discorso filosofico, l’incapacità di avere uno sguardo razionale che a partire dal particolare giunga sull’universale è una caratteristica di molti contemporanei ragionamenti. Carlo Fedeli, detto in estrema in sintesi, e con molta decisione, ha visto giusto, e ha visto probabilmente ancora più a fondo di quanto possa apparire: quel che ha constatato svolgendo esami, è in realtà un problema ancora più grave, che si ripercuote sulle tesi di laurea e sui primi lavori di giovani ricercatori. Agli esami, peraltro, molta responsabilità va a chi ha tenuto il corso, dove l’attenzione spasmodica per il particolare ripetuto deriva da un’imitazione ingenua del modello, che si è ascoltato annoiati per molte ore, senza che mai lo studente comprendesse che si discuteva di pensiero, e non di fatterelli. Se il modello fosse stato efficace – sapendo inserire l’elemento specifico in un “tutto” – anche il risultato sarebbe stato migliore.



Sarebbe interessante confrontare, almeno nel settore umanistico, le tesi di laurea di vent’anni fa con quelle di ora: si scoprirebbe con profondo stupore che purtroppo molto spesso i lavori sono lunghi, ma la ragione che è in essi rimane breve e che, nello sforzo autoreferenziale di far venire alla luce un problema particolare, manca una visione “generale”, la capacità di inquadrare il problema in un contesto, in una diacronia.



Anche i lavori che cedono a quella moda assurda e dannosa che si usa chiamare “storia delle idee” sono in realtà inutili ripetizioni di una brevità: il medesimo istante di pensiero ripetuto all’infinito, che tanto stigmatizzava come guaio di certa filosofia il poeta Paul Valéry. Appare il difetto di ogni raccolta di particolari, che è spesso solo una raccolta di elementi la cui sommatoria non genera alcun universale. Di fronte a tale omologazione, in cui il breve e l’inessenziale diventano l’assoluto, sono arrivato a ricordare e a rimpiangere – cosa che mai mi sarebbe accaduta vent’anni fa – quel che scriveva Foucault, profeta di un altro sguardo, una specie di “sguardo dissociante” “che distingue, distribuisce, disperde, lascia giocare la differenza ed i margini”. Tale sguardo è diventato paradossalmente utile: nel momento in cui si vuole omologare, volendo raccogliere un materiale stratificato nella storia della filosofia, delle arti e delle critiche poetiche e letterarie come se fossero raccolte di particolari, il rischio di mettere insieme materiale eterogeneo è alto, ma va corso.



Alle motivazioni didattico-pedagogiche, ma anche sociali e culturali, di Carlo Fedeli, difficilmente contestabili, vorrei dunque aggiungere qualche ulteriore elemento, pur ingenuo ed empirico. Da un lato, infatti, senza dubbio, la crisi delle ideologie, delle grandi visioni e delle utopie, hanno avuto una loro incidenza in un atteggiamento collettivo: è difficile per una ginestra attaccata alle falde di un monte credere alle magnifiche sorti e progressive e vedere al di là del proprio stretto orizzonte. Il vulcano sembra spento, il terreno è brullo, il sole brucia e dunque è più rassicurante rimanere legati a ciò che si può “controllare”, che si pone non sulla linea dell’orizzonte, ma nel proprio immediato campo visivo. Sembra che oggi si sia raggiunta la triste consapevolezza che non è possibile costruire prospettive organiche, piani di discorso, o di dialogo, che abbiano una validità “universale”.

Responsabilità di Internet? Degli spot televisivi? Di una cultura degli eventi? Di festival “culturali” sempre più assurdi il cui unico scopo sembra dare pillole che abbiano un effetto placebo senza affrontare questioni vere e fondative? Forse. Responsabilità anche, però, di nuovi incroci parascientifici che con l’apparenza della interdisciplinarietà vogliono in realtà ridurre le grandi questioni a problemi particolari, spesso riconducibili a qualche gioco neuronale.

Con ciò si è quasi dimenticato che le opere dello spirito e della cultura sono in primo luogo spazi che “fanno pensare”, e in questi pensieri fondano, oltre alla loro specifica storicità, la storicità originaria del nostro esperire, senza che sia necessario ricondurre tale “originarietà” a processi fisiologici, psicofisiologici, neurologici e via dicendo. Come scriveva Merleau-Ponty, certa filosofia è troppo sensibile, oggi, alle mode intellettuali e crede che pensare significhi soltanto “sperimentare, operare, trasformare, con l’unica riserva di un controllo sperimentale in cui intervengano solo fenomeni altamente ‘elaborati’, che i nostri apparecchi, più che registrare, producono”. Con grande ironia aggiungeva che le nostre scienze sono piene di quel che chiama “gradienti”, che è “una rete che si getta in mare senza sapere quel che riporterà”. In un’ossessione di “operatività”, di “attualità”, di “novità” si deve forse, allora, fermarsi a riflettere, invece di inseguire riproposizioni acritiche di antiche teorie solo orecchiate, in cui lo studioso è vittima, e a volte purtroppo protagonista, di un artificialismo assoluto, di una presentazione ingenua, perché spesso inconsapevole, di ideologie “scientiste” e particolari.

La responsabilità di una “ragione breve”, dunque, non è soltanto della società o, se lo è, questo non è buon alibi per autoassolversi. La responsabilità è in primo luogo “nostra”, di chi, insegnando, scambia per universale il proprio particolare, e trasmette solo quest’ultimo, senza inserirlo in un quadro assiologico “forte”, dove vi sia pensiero, passione e ragione – che sono tutti valori “universali”. Se, quando si spiega come si fa una tesi di laurea, ci si abituasse non a fornire manualetti stereotipati, bensì la Retorica di Aristotele, qualcosa, forse, cambierebbe. Se all’università, per esempio in un corso di filosofia, si ricordasse non solo il valore dei classici, ma si spiegasse il motivo per cui sono ritenuti tali, se si avesse il coraggio di mostrare una “visione”, e non soltanto particolari predigeriti, se si combattesse con l’esempio di una ragione lunga, articolata e dialogica quel che già Husserl chiamava “obiettivismo moderno”, forse, con fatica e lavoro – che sempre sono necessari e  richiedono tempo – qualcosa, poco a poco, cambierebbe.

E si tornerebbe a una ragione che è fondazione per un metodo che non vuole spiegare in poche battute, ma che sia invece strumento che aguzzi la capacità di distinguere, che attiri l’attenzione sulle profondità del senso, che fornisca strumenti svariati per comprendere e descrivere gli innumerevoli problemi che sorgono sul terreno, e soprattutto che sappia insegnare la complessità, nella consapevolezza che le tracce che siamo in grado di fornire per penetrarla non sono la verità, ma prospettive su di essa, stimolo per un percorso infinito.