Il recente intervento di Andrea Moro ha rilanciato in modo stimolante il problema della grammatica. In effetti, se prendiamo in mano alcune grammatiche “innovative” pubblicate a cavallo degli anni 70-80, ci troviamo assai probabilmente davanti a due presenze inquietanti: i capitoli introduttivi per il “piccolo linguista”, in cui ai pargoli si presentavano gli ultimi ritrovati della teoria semiotica, e, al posto delle incoraggianti illustrazioni per l’editoria scolastica, formalizzazioni ad albero, formule alfanumeriche e altre rappresentazioni formali. Il bel linguaggio che tutti capiscono, per cui il soggetto è soggetto e i complementi sono complementi, travolto da espressioni come “espansioni”, “attanti”, “sintagmi”, di cui gli stessi insegnanti non capivano la necessità.
Se è a questo che si riferisce Andrea Moro, quando dice che “far studiare a livello scolastico la linguistica formale sarebbe come affidare un atleta di salto con l’asta ad uno studioso di teoria della gravitazione”, ha perfettamente ragione. Ma tra gli eccessi e “tenersi ben saldi sui metodi e schemi filtrati e messi alla prova da tradizioni bimillennarie”, su cui negli ultimi 10 anni, se guardiamo i manuali scolastici più gettonati, si sono attestati gli insegnanti, c’è comunque un margine ragionevole entro cui muoversi.
Sulla debolezza teorica della grammatica scolastica tradizionale si è espresso recentemente Luca Serianni, che in L’ora di italiano, al capitolo 6, ha lamentato la “debole capacità esplicativa” di molti dei concetti e delle classificazioni su cui si basa l’insegnamento: lo stesso Serianni, al convegno Giscel del marzo 2010, ha presentato un’ampia relazione sulle incongruenze e i limiti scientifici di una gran parte dei manuali scolastici in circolazione. Maria Pia Lo Duca da tempo sta studiando sul campo le conseguenze sulle conoscenze degli studenti, per categorie basilari come il nome e il verbo, dei metodi utilizzati a scuola, basati su definizioni semantiche inappropriate (il nome indica persone, animali, cose; il verbo indica azione; l’aggettivo indica qualità, e simili): dalle sue ricerche emerge che dopo 8-10 anni di scuola gli studenti riconoscono con difficoltà come nome tutti i deverbali come corsa, riconoscimento, nomina (ovviamente li prendono per verbi), mentre non riconoscono come verbi i fraseologici, i verbi di stato e altri.
Nel merito del problema sollevato da Carlo Fedeli cui anche Moro fa riferimento, il metodo analitico, che pure ha tanto peso nella costruzione del pensiero discorsivo, non è in grado di fornire agli studenti l’idea del “tutto” di cui le parole in successione sono i mattoni: la frase. L’analisi grammaticale, logica e del periodo abitua a scomporre e a classificare, non a cogliere l’unità semantica, pragmatica, comunicativa del discorso.
Modelli teorici più recenti sono in grado invece di descrivere il dinamismo della frase, basata sulla predicazione, e il modo in cui le parti del discorso si dispongono in funzione dell’insieme. Le funzioni nella frase, i nessi sintattici interni (concordanza, reggenza, inclusione di un gruppo sintattico nell’altro) sono fondamentali proprio per chiarire aspetti importanti della descrizione tradizionale della grammatica: come comprendere altrimenti la differenza di funzione di una parola in diverse catene sintattiche (es. lungo il fiume in cui un aggettivo funziona da preposizione, tutti i vari usi di che come congiunzione e come pronome ecc.)?
Il fatto che i modelli teorici “puri” non possano essere dati in pasto alle scolaresche richiederebbe semmai una buona alleanza fra teorici puri e professori di scuola, in cui la domanda di efficacia che sale dal basso – perché i professori si rendono ben conto che certe definizioni non tengono – trovi risposte adeguate. È necessaria una conoscenza corretta dell’oggetto-lingua da parte degli insegnanti, perché anche i metodi e le pratiche didattiche siano efficaci.
La mediazione può essere fatta anche dai professori di scuola che non hanno tralasciato di studiare un po’ di linguistica contemporanea (per esempio tanto Lepschy, tanto Schwarze, un po’ di Renzi-Salvi-Cardinaletti, … e qui ci vorrebbe un piccolo canone degli imperdibili) trovandovi i suggerimenti per risolvere qualche problema didattico. Un secolo di studi linguistici non è indifferente rispetto alla scuola. La soluzione secondo me può stare nel non pretendere di “applicare” alla scuola le teorie novecentesche sul linguaggio (il piccolo chomskyano, il piccolo funzionalista), ma di trovare nei principi teorici qualche chiave di lettura per capire la realtà e presentarla più ragionevolmente agli alunni.
Un esempio: il complemento predicativo del soggetto è un argomento quasi insormontabile del curricolo di grammatica di ogni studente – per forza: lo si spiega come un complemento, mentre è parte del predicato. Purtroppo gli studenti italiani non sanno cosa significa esattamente predicare, né che nel predicato nominale (altro scoglio) a predicare è il nome o l’aggettivo, ignorano quindi che il predicare non è proprio solo del verbo, né di tutti i verbi: in tutte le sane grammatiche si dice che l’elemento fondamentale del predicato nominale è essere, che però fa da ausiliare a tutti i passivi e a molti intransitivi. Insomma, l’insegnamento della grammatica è ancora campo aperto di discussione.