“Il primo pilastro di ogni discussione circa la libertà religiosa è il carattere universale di questo diritto fondamentale”: così Franco Frattini e Trinidad Jimenez su Avvenire il 18 giugno scorso. In un articolo estremamente positivo, gli autori hanno messo in evidenza il fatto che “la libertà religiosa è una questione che trova radice nella libertà di coscienza di ciascuna persona”. Da qui le molteplici convenzioni internazionali che, in vario modo, evidenziano come tale libertà concerne, tra gli altri, il diritto di scelta, la libertà di ciascuno, la dimensione pubblica della religione, e, nella pratica, il diritto di manifestarla e di insegnarla. Ecco che allora dalla libertà religiosa consegue la libertà di educazione e di insegnamento. Da qui il nodo in-affrontato nel nostro Paese: in Italia c’è la libertà di educazione? C’è la libertà di scelta scolastica? Il diritto alla libertà di educazione ha concreta cittadinanza? Tali diritti consentono il doveroso accesso alle opportunità economiche in termini equitativi ed egualitari?



Nel nostro sistema nazionale di istruzione, questi principi, doverosamente sottoscritti dallo Stato italiano, non sono rispettati. È vero, si è fatta una legge sulla parità, ma questa legge è orientata esclusivamente a dettare le norme giuridiche condizionanti l’operato delle scuole non statali paritarie. Totalmente ignorate sono le condizioni di sostegno economico. Ci si è totalmente dimenticati di articolare norme che abbiano a consentire l’esercizio di tali diritti. Quella parità che riguarda la concreta possibilità di esercitare il diritto di scelta della scuola; il diritto di scelta dei fini, dei tempi e dei mezzi cui orientare la propria formazione ed il proprio apprendimento; il diritto di insegnare negli ambiti ritenuti legittimamente più gratificanti nei riguardi del proprio impegno professionale.



La Repubblica italiana ha dato vita ad uno statalismo ormai stantio che non ha eguali in tutto il mondo occidentale. Si tratta di una perpetuata ingiustizia sociale. Soprattutto, però, si tratta di una ingiustizia politica e morale, perché discrimina le persone in ragione delle loro scelte scolastiche e culturali.

Ci si domanda come abbiano potuto e ancor oggi possano i governi ed i parlamentari, che si sono succeduti alla direzione della comunità nazionale, non capire le gravi anomalie del sistema, e come restino oscurati da una miopia e da una indifferenza culturale ed operativa incapace di affrontare il problema e di superare ostacoli che relegano la scuola ad espressione governativa, insensibili all’emergere nella società di fatti nuovi in grado di sconfiggere l’ideologia statalista dominante e quindi in grado di essere risposta vera ai bisogni emergenti nella società civile.



È urgente che l’Unione europea abbia a prestare una maggiore e più incisiva attenzione al tema della libertà religiosa e della libertà di educazione per tutti. Ma è altrettanto urgente e non più procrastinabile che lo Stato italiano abbia una volta per tutte a rispettare le norme internazionali da lui stesso sottoscritte, riconoscendo a genitori e famiglie la loro responsabilità educativa e condizioni di pari dignità e uguaglianza, affermando altresì che i cittadini tutti devono essere liberi di scegliere il tipo di scuola preferito per sé e per i propri figli. Cercare di dare questa possibilità alle famiglie vuol dire, tra l’altro, migliorare la scuola pubblica (statale e non statale che sia), qualificare e selezionare i grandi costi dell’istruzione, elevare il livello qualitativo degli studi e l’affezione agli studi stessi degli studenti. Significa, in ultima analisi, motivare in tutti i soggetti della scuola una maggiore responsabilità.

Sembra giunto il momento di essere incisivi e risolvere il problema annoso di una scuola veramente libera: compito questo di cui la classe politica del nostro Paese – di qualsivoglia colore sia – deve farsi carico.