«Capisco e condivido. I giovani universitari che desiderano insegnare si scontrano con una drastica chiusura di prospettiva: è un problema grave e complicato». Susanna Mantovani, prorettore e docente di Pedagogia nell’Università di Milano Bicocca, ha letto su ilsussidiario.net la lettera aperta al ministro Gelmini firmata dagli studenti del Clds. «È vero quello che dice Berlinguer» continua Mantovani «cioè che la Gelmini ha fatto degli sforzi importanti, ma il nodo va sciolto. La sola ipotesi che i giovani, dai più piccoli ai più grandi, in un mondo che cambia così rapidamente potrebbero non incontrare le generazioni a loro più vicine, mi sembra qualcosa di assolutamente improponibile».
Il ministero si prepara a scioglierlo a modo suo: nuovi accessi all’abilitazione chiusi fino a che non saranno completamente assunti tutti i precari. E i giovani restano tagliati fuori.
È comprensibile l’aspirazione di chi è precario da molti anni, però non si può pensare di saltare una generazione e non dare una prospettiva ai giovani. Non solo perché in questo modo si bruciano desideri, energie, ambizioni degli attuali studenti e futuri docenti. Occorre cambiare prospettiva: parliamo sempre «di» studenti, ma quasi mai ci mettiamo in condizione di capire quello che servirebbe davvero agli studenti.
Parla del ricambio generazionale?
Non è solo questione di ricambio generazionale. Da una recente ricerca che ho avuto modo di condurre sulle impressioni di 500 ragazzi che hanno frequentato un anno di scuola in Italia, emerge che una delle cose che più li ha colpiti è la generazione degli insegnanti. La sola ipotesi che i giovani, dai più piccoli ai più grandi, in un mondo che cambia così rapidamente potrebbero non incontrare le generazioni a loro più vicine, mi sembra qualcosa di assolutamente improponibile.
Come valuta in generale il nuovo schema di ingresso nella scuola attraverso il TFA?
Bene, perché prevede un partenariato di scuola e università che trova nel tirocinio la chiave di volta, e permette di superare i vizi di fondo delle due istituzioni, la scuola quello di arroccarsi e l’università quello di guardarsi l’ombelico, cosa che riesce sempre a fare benissimo. Gli insegnanti più esperti avrebbero un ruolo di primo piano, e questo è molto importante per la formazione sul campo. L’auspicio culturale è che il partenariato diventi ancora più fluido.
La lettera chiede di tenere ben distinti abilitazione e reclutamento. Lei cosa pensa al riguardo?
Comprendo bene il principio ispiratore: non è detto che la formazione acquisita si giochi solo nella scuola. Va detto però che non si possono nemmeno creare migliaia di profili professionali senza prospettive. Qui si tratta di regolare bene un punto molto delicato. «Prendo l’abilitazione, ma non pretendo la garanzia dell’assunzione»: d’accordo; senza contare che c’è anche una «mortalità» professionale, quella di chi si accorge, facendo il tirocinio, che l’insegnamento non è la sua strada. L’importante, però, è che gli abilitati non creino come tali ulteriori diritti acquisiti. Che è uno dei nostri grandi problemi insoluti.
Chi dovrebbe reclutare i prof?
Le scuole, ma con dei correttivi. Vedrei bene un sistema che garantisse molta più possibilità di cooptazione. Non mi piace che uno venga preso perché è più in alto nel punteggio. So che è molto poco sindacale quello che le dico, ma preferisco un sistema aziendale. Una scuola non può subire la scelta. Dovrebbe poter fare una scelta ragionata, non arbitraria, ma eticamente ben fondata – un po’ come avveniva nei concorsi universitari quando funzionavano bene.
Da qui quelli che chiama «correttivi»?
Sì. Non libertà totale, se no creiamo scuole in cui tutto e tutti sono omogenei. Che in una scuola arrivi qualcuno che non è scelto obbliga ad un confronto, è una cosa che arricchisce.
Ha usato una parola molto pericolosa: «aziendale». Un sacrilegio.
La modalità tecnica richiederebbe un’altra discussione, qui importa intendersi sui principi, e su questi io sono molto liberale: se c’è una cosa da copiare dalle grandi aziende è il reclutamento del personale, che solitamente avviene in modo molto serio. Non si può non pensare ad una selezione basata sulle attitudini, oltre che sulle capacità. Quando abbiamo tanti casi in cui i maestri e gli insegnanti hanno gravi problemi – non sto parlando di personale inadatto, non arrivo a questo -, qualcosa non ha funzionato. E non abbiamo più gli strumenti giuridici per allontanarli.
Prima ha parlato di «diritti acquisiti». Il suo è un attacco alla stabilità lavorativa?
No, affatto. È una questione di principi che hanno gradualmente perduto il loro punto di equilibrio. Si pensa troppo al diritto della persona che educa, occorre anche pensare alla complessità e alla delicatezza del problema in chi l’educazione la riceve. Siamo un sistema sbilanciato nei confronti dei diritti di chi aspira a un lavoro e che non tiene sufficientemente presenti i diritti dell’utenza. Gli studenti hanno bisogno di docenti di più generazioni, giovani, medi e più anziani. Questa ricchezza è ciò di cui la scuola ha bisogno. Servirebbe un nuovo bilanciamento, temperato per non cadere negli eccessi opposti.
Non è propriamente liberale la scelta del ministero: il Clds critica come «folle la decisione (…) di salvaguardare unicamente i diritti acquisiti di chi è già all’interno del sistema».
Sono d’accordo. Si guarda al numero di docenti precari da collocare e non ai giovani che avranno quei docenti. Per mia esperienza personale e amministrativa non credo nelle soluzioni facili, perché non ci sono; se ci sono, non sono soluzioni, come mostra bene la lettera degli studenti. Il reclutamento libero per esempio è qualcosa che richiede passi graduali, non può essere un soluzione immediata. È un obiettivo; mi piacerebbe però che fosse un obiettivo di cui si discute, facendo anche le scelte che servono per approssimarlo.
E i precari? Anch’essi hanno dei diritti.
Certamente, e lo dico con grave ansia per la loro condizione. Controbilanciare i diritti acquisiti non significa negarli. Occorre vedere il problema nella sua complessità: si può risolvere il problema dei precari assumendo dalle graduatorie e chiudendo di fatto ai giovani il tirocinio abilitante, ma così facendo perdiamo il grande capitale umano dei giovani. È quello che vogliamo?
(Federico Ferraù)