Quella del ministero «è una logica certamente ispirata al rigore nel momento in cui si propone di risolvere la piaga del precariato, ma pecca di scarsa attenzione quando mette da parte i giovani». A dirlo è Grazia Distaso, preside della facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Bari. Il ministro Gelmini sul Corriere si era detta contraria alla volontà di «aprire in modo indiscriminato percorsi di laurea per diventare insegnanti o per conseguire l’abilitazione all’insegnamento». L’orientamento dell’amministrazione è chiaro: le immissioni in ruolo danno in modo pressoché esclusivo la precedenza al personale precario. In realtà gli studenti del Clds e Mario Mauro e Maurizio Lupi, che ne hanno interpretato le istanze rispondendo al ministro, non vogliono affatto riaprire le graduatorie, ma solo garantire l’accesso all’idoneità professionale.



Grazia Distaso, gli studenti difendono il diritto ad abilitarsi alla docenza, senza pretendere alcun inserimento in graduatoria.

Hanno ragione. Sono d’accordo con questa ipotesi, cioè che vadano separate abilitazione e reclutamento. A Bari il nostro consiglio di Facoltà ha trasmesso il documento degli studenti, già approvato dal Senato accademico, alla Conferenza dei Presidi. Difende ragioni pienamente condivisibili.



La prima preoccupazione del ministro è non alimentare nuove graduatorie; lo Stato, ha scritto, «non può più creare posti di lavoro che non esistono», alimentando negli studenti «false speranze».

È giusto che si tenga conto del precariato. Mi guarderei però da soluzioni unilaterali, parziali, e per ciò stesso penalizzanti nei confronti dei giovani. Gli strumenti ci sono: si ricorra al TU 297/94, che prevede di assumere per il 50 percento dalle graduatorie e per il 50 per cento da concorso. In questo modo i nuovi abilitati avrebbero la possibilità di far valere il loro diritto di accedere alla professione docente. Sarebbe ingiusto selezionare a priori e non in base al merito.



Le risulta che le scelte del ministero abbia messo in difficoltà gli atenei?

A Bari abbiamo istituito il corso di laurea magistrale LM-14 per la classe di abilitazione A043 (quella per insegnare italiano, storia e geografia nella scuola secondaria di I grado, ndr) ma abbiamo fermato tutto quando sono stati resi noti i numeri del fabbisogno, poco più che simbolici o nulli. È stato creato un Comitato interateneo per la didattica, in federazione con altri atenei del mezzogiorno: uno strumento pensato per adeguare l’offerta alla domanda del territorio. Abbiamo dovuto fermare tutto.

Secondo i calcoli fatti dal ministero, in molte regioni il fabbisogno di nuovi docenti sarebbe stato pari a zero.

È da rilevare che il fabbisogno nazionale complessivo fosse uguale a quello dell’ammontare dei precari. Mi pare francamente una coincidenza curiosa. In ogni caso, tengo a sottolineare che nessuno in università – ma penso che lo stesso valga per altri atenei – ne fa una questione di convenienza o di potere, in termini di fondi e di iscrizioni. Non è per questo; dispiace invece soprattutto per i giovani, che si vedono di fatto preclusa la strada dell’insegnamento.

Esiste secondo lei il problema di uno stop generazionale nella classe docente?

Se si blocca l’abilitazione, è inevitabile. I docenti che verranno saranno più maturi e a farne le spese saranno gli studenti. I precari sono persone formate e con esperienza, ma senza una classe di colleghi giovani questa esperienza rischia di non passare ad altri. I giovani portano entusiasmo e soprattutto innovazione nella didattica. Questo è molto importante per le nuove generazioni che saranno sui banchi, fatte di persone che hanno bisogno di essere sollecitate, stimolate. Chiedono professionisti che sappiano insegnare condividendo il loro milieu culturale, che appartengano al loro orizzonte. Ripeto, escludere mi sembra un metodo sbagliato: la strada maestra è quella di contemperare le esigenze.

Si sa che c’è una saldatura netta tra precari e sindacati, che di fronte alle scelte della Gelmini non hanno battuto ciglio. Una scelta conservatrice quella del ministero?

No so se chiamarla conservatrice. È certamente ispirata al rigore nel momento in cui si propone di risolvere la piaga del precariato, ma si tratta di una logica di carattere che definirei matematico quando mette da parte i giovani. È la logica che sceglie tra A e B, dove A e B non si incontrano. Sembra applicare il principio «prima facciamo questo, poi si vedrà». Ma così facendo, sembra mancare una visione attenta all’interesse generale.

A proposito dei nuovi abilitati si fa riferimento ad «albi regionali dai quali le scuole possano attingere direttamente i docenti» (per supplenze, senza graduatorie, e «da immettere in ruolo con proprio concorso di istituto o reti di istituto»). Un punto, quello della chiamata diretta, che già fa parte del ddl Aprea. Lei che ne pensa?

Sarebbe positivo, perché lascia intravedere una concezione assai più aperta della professione docente. Presupporrebbe però un’attuazione piena dell’autonomia delle scuole, che ancora non c’è. Servirebbe un percorso che la scuola non ha ancora fatto.

Che cosa auspica?

Che il ministro dia spazio anche ai giovani e che ci sia l’emanazione di linee guida definite per rispondere alla domanda formativa, i cui numeri, a mio modesto avviso, andrebbero ricalibrati.

Leggi anche

SCUOLA/ Tfa, perché il Miur obbedisce alle università telematiche?SCUOLA/ Tfa, caos in arrivo: ecco chi ha sbagliatoSCUOLA/ Immissioni in ruolo, evviva il concorso-beffa (e i sindacati stanno zitti)