Scorrendo i molti articoli che Ilsussidiario.net dedica all’educazione e alla scuola (e ancor più i commenti che frequentemente li accompagnano) sono rimasto colpito dall’emergere di una linea, il più delle volte non dichiarata, che li attraversa, che caratterizza non tanto l’analisi (tutti infatti concordano nell’identificare i molti e gravi problemi presenti nel nostro sistema formativo) quanto le prospettive che appaiono caratterizzate da due posizioni spesso tra loro in diretta polemica.



Ne sono usciti due, a questo proposito emblematici: quello di Angelo Teruzzi e quello di Olga Sanese. Anche se con toni diversi, gli articoli partono dalla constatazione che, nella nostra scuola, regola di riferimento continua a essere l’apprendimento di conoscenze formalizzate secondo i criteri della disciplinarità.



Cito da Teruzzi, che si riferisce a quelle che vengono considerate le “vere” scuole, i licei. «Si è di fronte ad una duplice tendenza: da un lato c’è chi vorrebbe tornare alla vecchia tradizione élitistica rendendo gli studi […] più impegnativi e selettivi; dall’altro c’è chi accetta la necessità di adeguarsi alla massa e, come si sa, se si guadagna nel numero si perde in qualità».

Due esiti opposti che, facendo riferimento a un’identica concezione del sapere e quindi della scuola, nel momento decisivo degli scrutini pone gli insegnanti in una situazione di stallo: teniamo fede al “progetto” scolastico (e li bocciamo tutti o quasi) o guardiamo al fatto che questi studenti, nella grande maggioranza dei casi, troveranno nella vita compiti che con l’alta cultura non hanno molto a che fare (e abbassiamo l’asticella quanto è necessario per evitare conseguenze troppo drastiche)? Essere rigidi perché fedeli o consapevoli della realtà e quindi malleabili?



La stessa domanda si pone Olga Sanese di fronte alla constatazione che alcune norme che stabiliscono criteri molto rigorosi per la promozione alla classe successiva, recentemente introdotte e salutate da moltissimi come un primo passo per il ritorno alla “serietà della scuola”, sono in realtà all’origine di un costume che, cito testualmente, costringe «gli insegnanti a mentire sull’andamento (disciplinare) dei loro studenti» e permette che «ragazzi che non arriverebbero all’esame con tutte sufficienze vedono lievitare i loro 4 (che devono magicamente trasformarsi in 6)».

Tutto normale quindi? Tutto secondo un copione che da troppi anni vede interventi di natura diversa, spesso opposti tra loro, che non danno però mai il risultato atteso? La scuola, stretta tra due esigenze opposte – il rigore del sapere e l’attenzione allo studente – si sente condannata a vivere in un mondo dominato dalla legge della “eterogenesi dei fini” per cui il risultato delle scelte genera inevitabilmente conseguenze opposte all’obiettivo perseguito.

No, non è tutto normale: ma solo l’atteggiamento con cui si sta di fronte a questa “normalità” può far emergere come questi dati, assolutamente obiettivi, possono dare origine a percorsi diversi, per certi versi opposti.

La risposta data dalla Sanese nel suo articolo, che esprime una cultura professionale largamente diffusa, è che gli insegnanti sono costretti dalle circostanze a scelte che non vorrebbero fare («per far sì che non perdano il posto di lavoro, guadagnato con decenni di precariato, gli insegnanti sono costretti a mentire sull’andamento dei loro studenti», ciò accade per «leggi dello Stato che nascondono, dietro giusti principi, la falce dei tagli»).

Ben diversa è la risposta data da Teruzzi. Alla domanda se sia possibile «abbracciare un’idea di cultura che non abbia nulla a che fare con l’attività propria dell’uomo» prova a rispondere introducendo alcuni impegnativi spunti di riflessione che toccano due differenti, ed essenziali, aspetti del problema scuola: la natura del sapere che, in quanto posseduto e insegnato, legittima oggi il suo “quasi monopolio” dell’insegnamento formalizzato; il rapporto tra la proposta, anche di vita, che la scuola fa alle giovani generazioni e le condizioni effettive in cui essi saranno chiamati a vivere alla conclusione del percorso formativo.

Perché la cultura professionale diffusa tra la maggior parte degli insegnanti fa così fatica a far proprie queste piste di riflessione, certamente ancora per molti aspetti embrionali? La chiusa dell’articolo della Sanese tenta di rispondere a questa domanda riprendendo una vulgata, da sempre ripetuta, ma che, pur facendo riferimento ad aspetti effettivamente presenti nella situazione della scuola, li carica di tutte le responsabilità senza porsi la domanda se anche l’insegnante, o meglio la sua cultura professionale, il modo cioè con cui legge il proprio compito, non debba sentirsi interrogato dalla situazione.

Due posizioni quindi che si caratterizzano innanzitutto a partire dalla disponibilità (o meno) dell’insegnante (degli insegnanti) a entrare nel merito del problema costituito dal nostro sistema formativo, senza fermarsi ai suoi aspetti “periferici”, anche se certamente sarebbe ingiusto ignorarli.

Gli insegnanti potranno tornare a sentirsi “gruppo sociale di riferimento” solo se (e quando) torneranno a una concezione della propria professionalità che, senza negare la sua specificità operativa (tecnica e relazionale), sia anche vista come espressione di una responsabilità più ampia.

La cultura professionale comune alla maggioranza degli insegnanti italiani appare oggi chiusa in un’aula (la propria), legittimata da un sapere formalizzato (la propria disciplina di insegnamento) e per questo messa in crisi ogni qualvolta in questo universo si affacci qualcosa di “altro”. Ciò viene troppo spesso considerato una “indebita ingerenza” e non ci si rende conto che questo “altro” è già a pieno titolo presente in aula, portato dai propri allievi, come è molto bene evidenziato da un articolo apparso su Ilsussidiario.net.

Quella che non è di per sé una “colpa”, lo diventa perciò nel momento in cui diventa un alibi per non affrontare un aspetto del problema della scuola che non può essere né capito, né tanto meno risolto senza il loro contributo: come obiettivi, fini, attività proprie della scuola concorrono a contrastare le derive che attraversano la società contemporanea, domanda cui è possibile tentar di dare una risposta solo rispondendo alla domanda su quale sia oggi il senso non del “mio” insegnamento ma della scuola, parte della società e condizione di vita.

Questa domanda non può trovare risposta semplicemente ribadendo le caratteristiche che hanno segnato altre stagioni della nostra scuola. Anche se il suo fine rimane (come deve rimanere) l’incremento della conoscenza in vista della crescita umana non solo la forma che la scuola ha assunto, ma le ragioni stesse del suo esistere come “condizione di vita” per tutti i giovani, per tutti gli anni della giovinezza (nella scuola si passano almeno 15, ma più probabilmente 20 anni), richiedono un ripensamento sul senso della scuola, sulle ragioni cioè per cui esiste e, solo in conseguenza, sulle sue forme.

Per riconoscere i tratti di questo problema occorre non rimanere ingabbiati in modelli professionali obsoleti che, anche se spesso molto diversificati fino ad apparire opposti, troppo spesso danno l’illusione di dare risultati che però non riescono a diventare caratteristica stabile e positiva della scuola stessa. In ogni caso la scuola è costretta a proporsi (o ad apparire) “giudice” del mondo reale: delle famiglie, del sistema dei media, delle condizioni del lavoro, ecc.; atteggiamento che la separa sempre più dal contesto in cui è posta, condannandola a essere sempre più inefficace e portando spesso gli insegnanti a ritenere che non solo non è possibile ma, in fondo, non è neppure necessario ripensare criticamente il proprio compito e quindi la propria professionalità.

La cultura professionale oggi largamente diffusa, centrata sulla didattica disciplinare e sulla relazione interpersonale, dimensioni che sembrano esaurire la stessa professionalità, rende agli insegnanti difficile stare di fronte alle domande che emergono interrogandosi sulle ragioni per cui oggi chiediamo ai giovani di passare tutta la loro prima parte della vita all’interno di un ambiente per sua natura “artificiale”.

Le ragioni infatti, per essere riconoscibili nelle concrete condizioni di vita, degli allievi, delle loro famiglie, ma anche degli insegnanti stessi, devono trovare una modalità di espressione adeguata al contesto culturale e socio-economico che può emergere solo guardando alla scuola come parte di questo stesso contesto cui la lega un rapporto non solo di natura funzionale, la cui insufficienza è già stata evidenziata dalla inflazione degli insegnamenti scolastici e dal proliferare delle educazioni.

Due sono le condizioni perché gli insegnanti possano diventare parte attiva e portare il loro contributo al ripensamento del perché e del come la scuola possa e debba rappresentare anche nei nuovi scenari che si vanno delineando un luogo insostituibile per l’apprendimento: il superamento dell’individualismo che caratterizza troppo spesso la posizione dell’insegnante; la disponibilità al confronto con altri soggetti interessati (o impegnati) al raggiungimento degli stessi fini.

Il primo appuntamento per l’insegnante è quindi quello di rendersi disponibile e di promuovere un diverso rapporto con gli altri insegnanti, non solo e non tanto in quanto cultori di uno stesso sapere, ma in quanto orientati da uno stesso compito. Ciò deve avvenire nella scuola, superando le forme di collegialità oggi presenti, e nella società in cui l’insegnante “associato” deve tornare a essere presente come portatore di una risposta al bisogno di senso che pervade tutta la società.

Il secondo è ben delineato da Matteo Foppa Pedretti che, in un suo articolo, identifica il primo grande appuntamento (ma potremmo meglio dire compito) della scuola nel rendersi disponibile a un confronto con le condizioni (educative, comunicative, lavorative, ecc.) del contesto in cui si colloca. Ciò deve, in tempi rapidi, produrre forme operative di parternariato che permettano di far fronte sia alla impasse educativa che caratterizza la nostra società sia al progressivo decadimento della capacità della scuola di insegnare.

Leggi anche

SCUOLA/ Prof, stipendi troppo bassi? Ringraziate i sindacatiSCUOLA/ Ben venga lo "svarione" delle 36 ore (se serve a cambiare tutto)SCUOLA/ Un prof: 36 ore, una proposta sciagurata per non fare l'unica riforma che manca