Sono tante le proposte che potrebbero far apparire nuove materie tra i banchi di scuola, provenienti da diversi schieramenti e in alcuni casi addirittura bipartisan. La senatrice del Pd Anna Maria Carloni propone l’insegnamento dell’educazione civica-ambientale, una versione quindi aggiornata della materia anni Settanta, per “sviluppare nello studente la consapevolezza di soggetto attivo e protagonista della comunità di appartenenza attraverso i valori costituzionali dell’educazione alla cittadinanza, all’ambiente, alla salute, all’affettività e l’educazione alimentare e stradale, oltre all’educazione civica e morale e all’educazione alla legalità”. Bipartisan è invece la mobilitazione a favore dell’educazione ai diritti umani, con l’obiettivo di “educare i cittadini al rispetto degli altri e alla convivenza basata sull’uguaglianza dei diritti e dei doveri dell’uomo nel rispetto dell’autonomia personale di ogni individuo”. Poi c’è la Lega che preme fortemente affinché a scuola si insegnino lingue e dialetti delle comunità territoriali e regionali e la storia locale, mentre la deputata del Pd Giovanna Melandri punta sull’insegnamento dell’introduzione alle religioni per favorire un dialogo tra i diversi orientamenti religiosi. Infine la proposta del deputato del Pdl Emerenzio Barbieri, che vorrebbe porre la lingua dell’Esperanto al posto della seconda lingua europea alle medie e al liceo, per riequilibrare lo strapotere delle lingue che nelle istituzioni europee e nei rapporti commerciali e finanziari dell’Ue la fanno da padrone, cioè inglese, francese e tedesco. IlSussidiario.net ha chiesto un commento al Professor Giuseppe Bertagna, Ordinario di Pedagogia generale presso l’Università degli Studi di Bergamo:«Le materie sono già tante e non ne servono di nuove, soprattutto se l’intenzione è aggiungerle sotto forma di orari, insegnanti e metodi separati. Inoltre è molto importante recuperare la dimensione educativa, quindi cercherei di introdurre queste nuove materie affinché attraversino tutta l’esperienza scolastica grazie alla mediazione di insegnanti che sono “exemplum”, cioè persone che vivono la cultura nelle relazioni, nella esperienza didattica e che possono avere una particolare sensibilità nei confronti di tutte quelle dimensioni educative che una persona incontra nella sua crescita. La proposta non è comunque nuova, perché nel 2004 furono emanate le indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati di Letizia Moratti, che contenevano due segmenti del piano degli studi.
Il primo riguardava le discipline e il secondo le educazioni, mettendo bene in evidenza che le discipline non avevano una funzione finale, cioè non dovevano essere studiate a scuola solo perché importanti in sé, ma importanti e preziosi in quanto strumenti di analisi della realtà e in quanto strumenti di ordinamento del pensiero, di accostamento ai problemi, e di risoluzione di questi, quindi come strumenti dell’educazione. Le due parti delle indicazioni nazionali avevano una priorità logica, ontologica e antropologica nell’educativo, in cui erano presenti tutte queste dimensioni che oggi ritornano, come l’educazione civile, l’alimentazione, i diritti umani, l’ambiente e così via». Cosa pensa dell’introduzione dell’educazione ambientale? «Nel 2004 era già presente, ma c’era il principio che per queste educazioni dovevano essere adoperate le discipline, quindi non c’era l’ora di disciplina e l’ora di educazione ambientale, ma c’era l’educazione che attraverso le scienze, l’economia o la letteratura doveva servire come occasione per aumentare la sensibilità educativa dei ragazzi nei confronti dell’ambiente». E per quanto riguarda l’educazione dei diritti umani? «Va benissimo, come si può essere contrari a una cosa così ovvia? Il fatto è che se si fa l’ora di diritti umani si raggiunge l’obiettivo contrario di quello che si voleva affermare, perché i ragazzi non riusciranno a tollerare una serie di aspetti disciplinari così organizzati. Diverso invece è se i diritti umani vengono rispettati ogni mattina con i ragazzi, attraverso azioni riflessive sui comportamenti inadeguati o portando a scuola un giornale e mostrando la vita delle famiglie. Allora in quel caso diventa davvero educazione dei diritti umani». Cosa pensa invece della proposta della Lega riguardo al dialetto e alla storia locale? «Anche questa va bene, purché non si aggiunga a un’altra disciplina. La storia già l’abbiamo e ci mancherebbe altro se questa prescindesse da un radicamento e da una memoria di cui ciascuno è testimone personale e a maggior ragione a livello societario e nazionale. Quindi per forza di cose non si può capire la storia d’Italia se non a partire anche dalla nostra storia, dei nostri nonni e delle nostre famiglie. Quindi non va bene se le ore da 30 diventano 31, o se gli insegnanti da nove diventano dieci, perché si avrebbe solo una frammentazione sia conoscitiva che educativa che non aiuterebbe nessuno».
Infine l’introduzione dell’Esperanto. Pensa che sia davvero possibile? «In Italia l’esperanto non è parlato da nessuno, quindi penso che non sia un punto di partenza, ma semmai di arrivo. E se rappresenta un punto di arrivo deve essere scelto liberamente, dalle persone che manifestano una vocazione, un interesse disponibile a questo argomento, e in questo caso non c’è niente di male. Ma ripeto che anche riguardo a questo, non si può aggiungere un’ora in più di esperanto, perché servirebbe anche un nuovo insegnante di esperanto, e la formazione di questo insegnante di esperanto. Quindi, al di là delle dimensioni economiche del problema, mi preoccupo soprattutto dell’aspetto educativo ed è proprio su questo piano che qui avremmo risultati opposti di quelli che vorremmo raggiungere».
(Claudio Perlini)