Il  dibattito tra Felice Crema e Olga Sanese è quanto mai di attualità, mette al centro dell’attenzione una questione decisiva del mondo della scuola: chi sia oggi l’insegnante, quale il suo compito, perché mai si debba puntare su di lui e non su altri fattori per una ripresa di fiducia nei giovani e nella loro positività.
Sono domande urgenti quelle che non solo i due editorialisti de IlSussidiario.net, ma la realtà della scuola pone sulla figura dell’insegnante, domande decisive. Ne va del futuro dell’insegnante stesso, vi è in gioco la sua sopravvivenza. La situazione è grave, tutto cospira per ridurre l’insegnante ad una funzione dentro una catena di montaggio, vi è in atto un tentativo di omologazione cui tutti partecipano, dagli studenti ai genitori fino alle funzioni direttive della scuola; un’alleanza trasversale per rendere l’insegnante funzionale a quanto ognuno preferisce, a quanto ha pensato meglio per sé.
Dopo anni e anni di dibattito ideologico oggi prevale il tentativo diffuso di fare l’insegnante a propria immagine, di renderlo funzionale alle proprie preoccupazioni. Così l’insegnante finisce di essere quello cui lo chiama la sua identità, una presenza umana che sfida i suoi allievi ad esserci, una posizione culturale che provoca ogni studente a ritrovare il punto originale da cui andare all’attacco della realtà. C’è in atto un attacco grave all’identità dell’insegnante, sotto false promesse di promozione sociale lo si vuole inghiottire in processi psicologici e didattici, renderlo funzionale a progetti scolastici, si vuole tutto dall’insegnante tranne che una presenza!
Qui sta la questione seria che in due modi diversi Crema e Sanese pongono e cui urge dare risposta al più presto, altrimenti il processo di omologazione in atto risulterà vincente e l’insegnante sarà sempre più statale, sempre più un (buon) funzionario.
In questa direzione sono importanti due fattori che possono rilanciare una presenza dell’insegnante dentro la realtà della scuola, una presenza originale tale da sfuggire al cappio che l’istituzione, ben spalleggiata dalla mentalità dominante, ha da tempo lanciato.
Il primo fattore consiste nel fatto che sta nella persona dell’insegnante il punto di unità tra le diverse dimensioni di cui è fatta la professione docente: educazione e istruzione, singola disciplina e maturazione dello studente, individualità e collegialità, classe e scuola.



In questi anni si è tentato di affrontare la questione ideologicamente, forzando ora sull’uno ora sull’altro di questi elementi. Il risultato è stato quello di generare dei dualismi: chi ha affermato l’educazione contro l’istruzione, chi viceversa, chi è stato disciplinarista, chi invece ha ridotto se non annullato il valore delle singole discipline, chi ha sostenuto il principio assoluto della collegialità, chi invece ha voluto affermare l’individualità di ogni insegnante. Ne è risultato un caos, uno scontro delle parti in cui sempre un fattore è stato affermato e l’altro negato, l’esito è stato fallimentare, col risutlato che oggi lo stato vuol prendere in mano le redini del gioco e stabilire lui chi sia l’insegnante, cosa debba fare. Invece la strada che la realtà suggerisce è un’altra: è la persona il punto che unifica le dimensioni di cui è costituita la professione docente, è la sua originalità, è la sua razionalità che cresce dentro l’impegno quotidiano con i bisogni degli studenti, uno ad uno.
La persona dell’insegnante è costituita dalla sua ragione, dall’apertura che vive a tutta la realtà, e insegnare è un’occasione per far crescere la propria ragione. Non innanzitutto la tensione a far crescere la ragione degli studenti, o a far loro apprendere ciò che si conosce, ma ad accettare la sfida che l’insegnamento è rivolto alla propria umanità. Insegnare è innanzitutto imparare; imparando, la ragione dilata i propri orizzonti, diventando sempre più fattore di conoscenza del reale. Presenza, solo presenza, significa usare la ragione dentro l’insegnamento, accettare la sfida a che cresca, si incrementi, liberi tutte le sue energie.
Il secondo fattore è la cultura. Insegnare è fare cultura, insegnare è promuovere cultura. Come ha detto Giovanni Paolo II all’Unesco nel 1980 “la cultura è ciò per cui l’uomo in quanto uomo diventa più uomo, «è» di più, accede di più all’«essere»”. Questa è la sfida che ogni insegnante è chiamato ad assumersi ogni mattina: ogni cosa che insegna, ogni esercizio che propone, ogni richiamo, ogni consiglio, ogni interrogazione, ogni valutazione sono occasione di cultura, sono possibilità che si aprono perché l’uomo diventi più uomo.
In questa direzione vale la pena che ogni insegnante tenga conto del grande insegnamento che viene da Sinjavskij, il quale in uno dei suoi Pensieri Improvvisi ha chiarito in modo efficace che cultura non è avere tante informazioni ma attingere al significato della realtà, e questo è possibile a tutti, anche al contadino russo, perché è il cuore che ci permette di entrare in rapporto con il significato vivente della realtà, e ogni uomo ha il cuore, basta che lo ascolti, lo segua, lo metta al centro di ogni sua mossa.



Scrive Sinjavskij: …La quantità delle nostre nozioni e informazioni è enorme, ne siamo sovraccarichi, senza che esse cambino qualitativamente. In pochi giorni possiamo fare il giro del pianeta – prendere un aereo e viaggiare senza profitto spirituale, allargando soltanto il nostro raggio informativo. Confrontiamo adesso questi pretesi orizzonti con lo stile di vita dell’antico contadino, che non si spingeva mai al di là del suo praticello e camminava tutta una vita nelle tradizionali ciabatte, fatte a casa. Il suo orizzonte a noi pare ristretto; ma, in verità, com’era grande questa serrata compagine, concentrata in un solo villaggio. Perfino il monotono rituale del pasto… faceva parte di una cerchia di nozioni dal significato universale. Osservando il digiuno e le feste, l’uomo viveva secondo il calendario di una storia comune che cominciava da Adamo e finiva col Giudizio Universale… Il contadino manteneva un legame permanente con l’immensa creazione del mondo, e spirava nelle profondità del pianeta, accanto ad Abramo. Invece noi, scorso il giornale, moriamo solitari sul nostro divano angusto e superfluo…Prima di impugnare il cucchiaio, il contadino cominciava col farsi il segno della croce e con questo solo gesto riflesso si legava alla terra e al cielo, al passato e al futuro”.
Questa immagine di Sinjavskij dovrebbe entrare in ogni classe, perché ciò che decide del valore di un insegnante non sono le informazioni che ha o la capacità che ha di farle cercare, ma se quando entra in classe e guarda in faccia i suoi studenti, uno dopo l’altro, si lega al cielo e alla terra, al passato e al futuro, dando significato al gesto che sta per iniziare, sperando da quello il bene per sé e per ognuno dei suoi studenti. Questo è cultura: che ogni gesto dell’insegnare c’entra con il destino di chi insegna e di coloro a cui viene insegnato!
Ragione e cultura, questa è la sfida che oggi ogni insegnante è chiamato a prendere sul serio, se vuol esserci in classe e non diventare la cassa di risonanza del potere. Esserci, perché un uomo è se c’è, se è presente a quello che fa. Per questo oggi vale, più di allora, uno vecchio slogan del ’68: “presenza, solo presenza!”.

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