Se questo drammatico mese di agosto 2011 si collochi solo leggermente al di là del crinale di mezza legislatura o ne sia la breve coda lo sapremo a… breve. La scadenza si presta, tuttavia, a qualche bilancio delle politiche dell’istruzione.

Il metodo è semplice: partire dalla condizione reale del sistema educativo italiano, qual era all’inizio della legislatura, e confrontarla con il suo stato attuale, a metà della legislatura. I dati strutturali del sistema nel 2008 erano: la bassa qualità complessiva dell’offerta educativa nazionale – documentata da indagini internazionali e nazionali oltre che dall’osservazione empirica quotidiana -, la massiccia dispersione scolastica, la caduta della funzione di mobilità sociale dell’istruzione, il suo distacco crescente dal sistema produttivo ed economico, il peggioramento della qualità professionale e della condizione materiale e psicologica degli insegnanti. Per affrontare la grave situazione Maria Stella Gelmini venne nominata ministro dell’Istruzione, ma fu Giulio Tremonti, ministro dell’Economia, a marchiare fin dall’inizio con un sigillo “finanziario” indelebile le politiche dell’istruzione. Sul Corriere della Sera della seconda metà di agosto 2008 si sviluppò una polemica esplicita tra i due ministri, a partire dalla questione del “maestro unico”, alla quale parteciparono le penne di punta del Corriere, schierate con Maria Stella Gelmini. Ma le ragioni di Tremonti erano già tutte scritte nel Quaderno Bianco sulla Scuola, pubblicato da Tommaso Padoa Schioppa e Beppe Fioroni nel settembre del 2007. Erano fondatissime. Perciò Giulio Tremonti chiese al ministero dell’Istruzione di “restituire” 8 miliardi.



La duplice sfida posta dalle condizioni drammatiche del sistema di istruzione e dalle ristrettezze di bilancio imponeva di incrociare il criterio del rigore finanziario con una filosofia e una strategia dei cambiamenti, delle riforme, dei riordini necessari alla qualità e al miglioramento del sistema educativo italiano. La sfida era fare riforme radicali e perciò risparmiare. Alcuni esempi e suggerimenti di riforme necessarie, in grado di produrre risparmi, erano già sul tavolo della politica italiana ed europea: abbassare a 18 anni l’uscita dalla scuola media superiore; essenzializzare il curriculum (il core curriculum), diminuendo il numero delle materie; riportare alla media europea il rapporto docente/ alunno, riducendo il numero degli insegnanti; consentire alle scuole di trasformarsi in Fondazioni e di raccogliere soldi dai privati, favorire lo sviluppo delle scuole paritarie (che producono risparmi per lo Stato)… Si trattava di una politica di liberalizzazione, di de-statalizzazione, di de-amministrativizzazione. 



Su queste promesse la maggioranza di governo aveva vinto le elezioni. In particolare, le speranze erano “autorizzate” dalla presentazione, già nei primi giorni della nuova legislatura, di una proposta di legge, poi denominata PdL 953, prima firmataria l’on. Valentina Aprea, neo-presidente della Commissione cultura della Camera. Il testo teneva insieme in modo coerente formazione, reclutamento, carriera degli insegnanti, nuova governance delle scuole, Fondazioni… Mancava il discorso sul curriculum e sugli ordinamenti. Ma nell’ottobre del 2008 venne presentato alle Camere il Piano programmatico, delle cui realizzazioni effettive il Documento di Economia e Finanza 2011 stila un completo elenco, nel quale il riordino dei percorsi scolastici, la riorganizzazione della rete scolastica e il razionale utilizzo delle risorse umane stavano ai primi posti, completando il disegno organico delle riforme attese.  Ebbene?



La sfida è stata persa. Certamente sul versante delle riforme strutturali e vinta provvisoriamente su quello del risparmio, ma solo a condizione di procedere con il metodo cieco dei tagli orizzontali. Il ministro ha scelto di delegare all’Amministrazione centrale e periferica il compito tutto politico di definire concretamente i risparmi/tagli e “le riforme”. La “ratio” di tale scelta politica è stata quella di non urtare l’Amministrazione e i sindacati, nel calcolo sbagliato di ottenere un largo consenso nella scuola. Così il principio “riformare per (anche!) risparmiare” si è trasformato in “risparmiare e forse riformare”.

In effetti, solo la sapienza secolare dell’apparato poteva conoscere esattamente dove si annidavano gli sprechi e dove si potevano tentare azioni di razionalizzazione e di risparmio, senza tuttavia mettere mano a cambiamenti radicali. A quanti hanno criticato recentemente il ministro per la sua posizione statalista sul reclutamento – ma in questo caso la critica appare a me sopra le righe – occorre solo far notare che questa è stata la sua impostazione originaria su tutti i temi, compreso quello assai più rilevante del finanziamento delle scuole paritarie. Forse si era distratti!… L’istanza di risparmio ha sì spinto al “riordino” del ciclo secondario di secondo grado, attraverso una corposa e necessaria riduzione degli indirizzi da 720 e più a meno di 50. Ma chi si aspettava una ripresa del programma Moratti in relazione all’architettura del ciclo secondario superiore – già peraltro ridimensionato rispetto a quello originario del 2001 – si è trovato di fronte la continuità con lo statalismo di Fioroni, che ha riportato nello Stato l’istruzione professionale e lì è rimasta con la Gelmini. Si è ridotto sì, benché modestamente, il numero di ore-apprendimento settimanali, senza però arrivare al core curriculum

Perciò il numero di materie è rimasto quasi intatto, salvo diminuire le ore di insegnamento delle medesime. L’effettivo orario di 18 ore cattedra (non più le 15+3) di 60 minuti reali ha generato qualche risparmio, ma ha irrigidito notevolmente l’organizzazione della didattica, rendendo ingestibili le assenze e costringendo pertanto a ricorrere alle supplenze, fonte di riproduzione del precariato. Il principio di fondo che ha ispirato le proposte dell’apparato, avallate dal ministro, è dunque quello dell’eterno ritorno conservatore della politica: unicuique suum, a tutti qualcosa, a prescindere dalla qualità, dai bisogni reali, dal merito. Riforme, ma con il freno a mano tirato.

Eppure, all’inizio della legislatura la Gelmini aveva ripetutamente lanciato alti proclami ideologici relativi alla carriera, allo stato giuridico, alla differenziazione delle retribuzioni, al premio alla qualità e al merito degli insegnanti. Intanto, però, il ministro autorizzava lo scorporo della formazione iniziale dei docenti dal PdL 953 – a seguito della pressione esercitata dalle università, lasciate a terra dall’abolizione delle SISS. Con ciò il PdL 953 veniva avviato sul binario morto anche per quanto riguardava il tema cruciale del reclutamento degli insegnanti, per dissensi interni alla maggioranza, in particolare della Lega. Al posto del PdL 953 è venuto avanti il surrogato, per suggerimento dell’apparato, di lanciare, nel novembre del 2010, un “Progetto sperimentale per la valutazione delle scuole” (per scuole medie delle città di Pisa e Siracusa) e un “Progetto sperimentale per premiare gli insegnanti che si distinguono per un generale apprezzamento professionale all’interno di una scuola” (per insegnanti di scuole delle città di Torino e Napoli).

In realtà il disegno ha incontrato fin da subito la dura ostilità dei sindacati e, quel che è peggio, dei Collegi dei docenti delle scuole, che dovevano essere soggetti di sperimentazione. E’ apparso troppo audace ai contrari alla valutazione e troppo timido a chi la vorrebbe per davvero. Il secondo dei due progetti è fallito. Il nuovo Regolamento sulla formazione dovrebbe incominciare a garantire, bene o male, nel giro di qualche anno, una programmazione razionale degli accessi e una migliore preparazione. L’unica cosa che non può fare è inventare i posti! Ma senza i gradini successivi – rappresentati dal nuovo stato giuridico e dalla carriera e valutazione dei docenti – la scala resta appesa nel vuoto. Nell’ipotesi che un insegnante entri giovane e preparato nella scuola, finirà, in assenza di valutazione e carriera, per seguire il destino infelice dei predecessori.

In conclusione, anche la XVI legislatura si è arenata nella palude di un riformismo politico puntiforme, bene intenzionato e talora bipartisan, che si illude di riformare con piccoli aggiustamenti, proteso da sempre nell’illusione di poter confezionare una saporita frittata di riforme senza rompere le uova degli interessi corporativi. A fondamento sta la filosofia multipartisan con cui si è costruito lo Stato nazionale in Italia: il pactum subjectionis, che ha subordinato la persona al cittadino, la società civile allo stato.

A quanto pare, il passaggio a un liberale pactum societatis è ancora lontano. Senza il quale, la big society di cui si favoleggia è solo uno slogan fumogeno.

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