La tragedia del nostro tempo è che non c’è più educazione. Siamo forse la prima generazione di adulti che vive in modo così drammatico il problema della tradizione, cioè della consegna da una generazione all’altra di un patrimonio di conoscenze, di valori, di certezze, di positività, di un’idea buona della vita. Non è più così scontato, non è più così facile che avvenga quel miracolo che sempre è stata l’educazione e che ha garantito, nel bene e nel male, anche in momenti terribili della storia, che il mondo andasse avanti. Evidentemente ci sono delle ragioni. Per esempio, è stata troppo sistematicamente distrutta, da parte di una certa cultura, l’idea del padre. Perché è attorno a questo nodo che si gioca la partita dell’educazione: l’educazione c’è se in primo luogo c’è l’adulto.



Una certa cultura prima ha distrutto l’idea stessa di Dio, di una Paternità grande a cui l’uomo appartiene o è desideroso di appartenere; ma così si è tarlata la certezza stessa dell’uomo di avere qualche cosa di buono e di intelligente da dire ai propri figli, in casa sua. Il problema è il cinismo di una cultura che ha distrutto l’unica cosa di cui i nostri figli hanno bisogno: sapere a chi appartengono, cioè avere un padre e una madre. Sapere di chi sono, perché è l’unica cosa che li educa e li preserva, anche psicologicamente, da tutte le patologie da cui sono ormai massacrati. Ma perché un figlio sappia a chi appartiene, bisogna che anche il padre sappia a chi appartiene. Io da bambino ho questo ricordo vivo di mio padre: quando andavamo a letto a dormire la sera veniva a farci dire le preghiere: entrava, s’inginocchiava in mezzo alla stanza e cominciava: “Padre nostro che sei cieli…”.



Mio padre era uno che non faceva tante prediche, parlava pochissimo; ci ha tirati grandi semplicemente invitandoci, in modo sempre implicito, a guardare quello che guardava lui. Era come se dicesse: “Io e voi, cari figli, siamo sulla stessa barca, e l’unico problema che avete è andare nella giusta direzione. Io ci sto provando: così si vive bene! Venitemi dietro che probabilmente diventate grandi anche voi”. E io lo guardavo e capivo che in lui la vita era una saggezza. Lui guardava le cose e le conosceva: lo capivi da come si muoveva, da come stava, da come cantava, da come giocava a carte, da come serviva a tavola noi figli e tutti gli amici che sono venuti dopo.



Era uno che potevi scommetterci che sapeva le cose, le conosceva, che avrebbe potuto spiegarti che cos’è il bene e che cos’è il male, che cos’è la gioia, che cos’è il dolore, perché si muore, perché si fa fatica, perché bisogna vivere e che cosa ci aspetta alla fine. Ed esemplificava con la vita che cosa vuol dire muoversi in pace con se stessi e col mondo, senza dire no a nessuna delle responsabilità, delle provocazioni che vengono dalla realtà. Era uno che a guardarlo, a me da bambino veniva da dire: “Io da grande voglio essere così”. Se poi ci mettete insieme la mia mamma! Figlia di contadini, praticamente sempre chiusa in casa – con dieci figli! -; ma quando è morta abbiamo nel suo armadio trovato una scatola dove c’era scritto: “Se qualcuno trova queste cose, non le butti via perché sono la Storia dentro la storia del mondo”.

C’erano dentro ritagli di giornale che si riferivano alla storia della Chiesa: Papa Giovanni, la beatificazione di questo o di quello… Contadina e aveva la terza elementare, ma aveva una coscienza così delle cose. Io sono diventato grande, grazie a Dio, con due genitori così; per cui mi è sempre stato facile capire che cos’è l’educazione: non è una serie di prediche, non è una preoccupazione da avere. È un uomo che vive. L’educazione non è mai un problema dei giovani, dei figli, degli alunni. È sempre un problema tuo. Cioè l’educazione è la capacità che hai o non hai di rendere testimonianza tu; chiunque tu sia, dovunque tu sia è la testimonianza di una certezza e di una positività che i figli possono guardare. Basta questo.