A completamento di quanto è stato riportato sulle pagine del Sussidiario.net in questi ultimi tempi sui problemi che oggi comporta la professione docente, occorre tenere conto di quanto sia mutato il quadro di riferimento entro cui si svolge il fenomeno della comunicazione di conoscenze nelle aule scolastiche.
Probabilmente se oggi ad un dirigente particolarmente impegnato a far funzionare l’istituto di cui è responsabile, oppure ad un docente molto preso dal proprio lavoro, perfino a genitori o studenti animati da intenzioni collaborative, si rivolgesse la domanda su che cosa sia la scuola, uscirebbero (stiamo parlando di “addetti ai lavori”) definizioni improntate a cliché piuttosto impersonali e depotenziati di passionalità: la scuola è il luogo della formazione dove si imparano le nozioni che servono a vivere, le regole per stare in società, il comportamento, la convivenza tra le culture, ecc. Da ambito di prima alfabetizzazione e di socializzazione (gli anni Cinquanta e i primi Sessanta), la scuola italiana oggi tende a rispecchiare un’immagine di corpo sociale retto dai principi (costituzionali) della negoziazione. La contrattazione dei compiti e delle conoscenze tra colleghi o tra insegnanti e alunni (emblematica nelle scuole superiori l’assemblea di classe, richiesta dagli alunni con domanda scritta, vidimata dal dirigente e concessa dall’insegnante: per fare che? Non importa!) corrisponde ad un modello di scuola, da cui deriva un idea di “mission”: introdurre i giovani nella cittadinanza attiva.
Questa sorta di contratto sociale implicito rappresenta tuttavia solo la superficie di un mutamento che riguarda la forma del rapporto tra chi insegna e chi impara (o almeno dovrebbe farlo). Passo dopo passo (agli storici dell’educazione il compito di fissare le fasi e i tempi) la scuola, intesa un tempo come ambiente omogeneo della grande narrazione sulla vita e sulla morte, in cui interrogarsi a fondo, e fin dall’infanzia, sul destino delle creature (i loro linguaggi, le forme e i rapporti numerici, gli spazi e i tempi), ha subito i condizionamenti della realtà nella quale è immersa, perché profondamente sfidata da essi. L’integrazione, l’abbattimento del disagio e della dispersione scolastica, l’orientamento personalizzato al lavoro o alla prosecuzione degli studi impongono che le attività che si svolgono tra le mura scolastiche siano verificate anche sul versante della loro effettiva incidenza sulla mentalità degli alunni. La formula che ha, per così dire, fissato la svolta epocale è quella, ricorrente in tanti documenti ministeriali e relazioni di commissioni, secondo la quale è opportuno passare “dalla scuola dell’insegnamento alla scuola dell’apprendimento”.
Ora, se è vero che su questo fronte tutti sono disposti a collocarsi, la battaglia culturale si svolge sulla concezione stessa dell’apprendimento, che per alcuni consiste soprattutto nell’opera di decodificazione dei simboli che vengono insegnati (l’apprendimento è posto in dialettica con l’insegnamento), mentre per altri non può prescindere comunque dalla funzione prioritaria dell’insegnare (si parla a questo proposito di insegnamento/ apprendimento). Potrebbero sembrare bizantinismi, ma in realtà non è così perché le conseguenze antropologiche dell’una o dell’altra matrice (e delle infinite sfumature intermedie) sono decisive.
Una citazione per la verità un poco datata può illustrare la dimensione “sociale” dell’apprendimento come condivisione “dal basso” di conoscenze essenziali: si tratta della sintesi dei lavori della Commissione dei Saggi istituita dal ministro Berlinguer e presieduta da Roberto Maragliano (gennaio-aprile 1997). Nel documento conclusivo si indicava come “compito prioritario della nuova scuola la creazione di ambienti idonei all’apprendimento che abbandonino la sequenza tradizionale lezione – studio individuale – interrogazione per dar vita a comunità di discenti e docenti impegnati collettivamente nell’analisi e nell’approfondimento degli oggetti di studio e nella costruzione di saperi condivisi”.
Il fiume carsico della decostruzione del cosiddetto “insegnamento tradizionale” ha attraversato le varie fasi delle riforme della scuola (il Riordino dei Cicli di Berlinguer, la Riforma Moratti, il cacciavite del ministro Fioroni, la Riforma Gelmini), per ricomparire nella attuale teorizzazione delle tecnologie dell’insegnamento, sull’onda dei paradigmi indicati dalle competenze chiave europee, e soprattutto dall’imparare ad imparare (formula che desta le più entusiastiche adesioni, così come le più accese ripulse). Non a caso il recente progetto ministeriale “Valorizza”, che ha premiato 276 docenti che si sono distinti per un generale apprezzamento nelle proprie scuole, ha curvato il focus della sperimentazione sulla “gestione” dei processi di apprendimento e sul rispetto delle “regole” disciplinari: due ambiti nei quali evidentemente gli insegnanti più attivi si sentono particolarmente dotati.
Ad ogni buon conto, il presupposto di queste riflessioni è che non si possa prescindere dalla odierna e sempre più impellente esigenza (tanto più urgente quanto implicita in certi comportamenti degli alunni) di insegnamento significativo, tale da essere espressione di una presa in carico, da parte del docente, di tutto l’orizzonte della persona dell’alunno, nella consapevolezza che l’apprendimento deriva dalla messa in moto di un interesse per la realtà, che nasce a sua volta dalla immedesimazione con figure stabili di adulti.
Perciò di apprendimento bisogna occuparsi comunque, ma soprattutto come espressione di una “pretesa” che l’insegnante ha rispetto all’alunno, perché egli stesso impegnato nei confronti della propria vocazione professionale che implica una continua riflessione sulla trasmissione dei contenuti fondanti delle materie di studio. L’apprendimento, in questa ottica, non è altro che la verifica dell’insegnamento che impegna la persona del docente in un movimento continuo verso la realtà, che è libero e creativo. I segni, gli alfabeti, i simboli utilizzati nella proposta di contenuti non sono mai separati dalle ragioni che li spiegano e li rendono utili a comprendere meglio il reale. In questo modo, il lavoro (di questo si tratta: lavoro!) che si compie nella scuola riguarda la continua scoperta dei significati di una realtà che si affida a noi perché i segni con i quali la rappresentiamo ne rispecchiano la profondità. Segni e simboli non come “convenzioni”, bensì forme coerenti di linguaggio con il quale dialogare con la totalità.
Nella scuola dell’insegnamento che diventa apprendimento, allora, non c’è da temere il monitoraggio esterno dei livelli di competenza acquisita dagli alunni (Invalsi, Ocse-Pisa, ecc.), proprio perché la valutazione dell’apprendimento è una preoccupazione continua dell’insegnante, che nella maturazione della conoscenza altrui ritrova – ad un livello diverso e qualche volta insospettabile – lo stimolo creativo che ha immesso nei propri ragazzi.