A fronte dell’avvio di un anno scolastico tra i più faticosi, anche a causa del ritardo sulle nomine in ruolo previste dal 31 agosto, ai presidi interessa sempre di più fare chiarezza sulle future risorse personali, oltre che economiche sulle quali potrà contare la ripresa di qualità delle nostre scuole. Non c’è dubbio che la priorità vada alla condizione insegnante, che, con buona pace di tutti, resta, nel rinnovamento, la sfida principale.
Per questo provo a esprimere opinioni sul dibattito attorno alla ripresa delle abilitazioni per i giovani laureati che vorranno insegnare. Per loro, e perché giovani con questo desiderio si affaccino alle scelte umane e professionali, è moralmente grave che tutte le forze che hanno responsabilità culturali tifino con forza contro il ridare riconoscimento a una vocazione (sì: vocazione, cioè consapevole risposta a una domanda sociale e umana) che oggi tante condizioni scoraggiano e sviliscono.
Quante discussioni, pur giuste, sull’eccesso del numero degli insegnanti in Italia in rapporto con i sistemi europei, sul numero ridotto delle ore/cattedra di quelli rispetto a questi, spesso trascuravano aspetti di qualità (compiti e competenze, livelli dei salari, diversità di figure come il “bibliotecario-documentalista” francese, carriera professionale, libertà e flessibilità nel rapporto tra laurea posseduta e posto di insegnamento occupato, ecc.) l’assenza dei quali ha deformato una delle più belle professioni sociali.
Sono stato positivamente stupito dalla coraggiosa scelta di deputati dalla maggioranza nel chiedere (ma quanti deputati e senatori si occupano seriamente di scuola?) all’attuale Ministero più attenzione ai bisogni reali e vero coraggio nel trasformare i principi in azioni corrispondenti. Ecco allora le considerazioni, permettendomi alla fine di “dare un po’ i numeri”.
Innanzitutto, l’errore dei tagli praticati in due anni sulla scuola (fino alla recente manovra) non è stato tanto nella “sottrazione di risorse” (anche se altrove in Europa e nel mondo si investe sulla formazione), ma nel fatto che sono sempre stati e restano tagli “trasversali”, senza alcun criterio progettuale positivo, “di sviluppo” direbbero taluni.
Il vero guaio emerso sempre di più negli ultimi quattro ministeri è il rafforzamento di difese corporative, sindacali-amministrative, per sistemare interessi tutelati da anni. A costoro occorre ricordare che non sempre l’interesse generale di un settore corrisponde al “bene comune” di cui le comunità hanno bisogno. Quello che non andava bene è stata la notizia circolata su siti scolastici dell’occultamento di posti da assegnare, nei futuri corsi universitari per le abilitazioni (i cosiddetti TFA), ai giovani laureati di questi anni. Ma anche i nuovi numeri che circolano non corrispondono (oltre che al rispetto delle norme) al bisogno reale delle scuola reale e del suo ammodernamento. In questo modo si scoraggia sempre più chi la scuola la vive con passione e chi riesce ancora a desiderare l’insegnamento come vita, prima che come professione.
La legge 124/99 assegna alle immissioni in ruolo il 50% dei posti alle graduatorie (trasformate dalla legge 296/06 in Graduatorie ad esaurimento) e il restante 50% agli idonei risultanti da pubblici concorsi i quali non sono necessariamente quelli centralizzati. Le SSIS erano nate con il proposito di formare insegnanti secondo il fabbisogno. Poi da molte parti si è fatto solo quello che tornava comodo ai posti universitari da proliferare, con torme di abilitati in discipline che non avevano corrispettivi di posti disponibili nelle scuole.
In gioco non c’è stata solo un’Università chiusa su di sé, lontana dalla realtà e dai suoi bisogni, ma anche una vera e propria crisi sociale. Quanta distanza ancora tra offerta formativa, scelte dei giovani e fabbisogni reali. Il che non è di poca incidenza sulla grave condizione occupazionale. Purtroppo, nonostante studi, servizi e proclami, le assunzioni di giovani danno ancora troppo poca fiducia al merito e alle loro capacità. Quanti nostri giovani laureati ben preparati trovano percorsi professionali interessanti solo all’estero, a fronte di dirigenze pubbliche e private che nelle scelte smentiscono le dichiarazioni teoriche.
È vero che da alcuni anni più informazioni sui reali inserimenti lavorativi dei giovani hanno iniziato a far crollare i miti di fine ‘900: certe lauree e la laurea in genere. Ma quante scuole fanno serie indagini sugli inserimenti lavorativi dei loro diplomati? Quante Università lo fanno sui loro laureati e ne divulgano i risultati? Quante facoltà ancora producono disoccupati? Pur non essendone l’elemento decisivo, sicuramente la crescita di un’informazione adeguata aiuterà a scelte migliori.
Se poi qualche classe politica avrà il coraggio di abolire il valore legale del titolo di studio, ognuno potrà farsi valere per le capacità che presenta. Ma nel frattempo, anche nell’ambito delle scelte per i futuri insegnanti, e onde evitare ingiustizie e sperequazioni, per alcuni anni occorre ancora mantenere interventi programmati, salvo dare a questi fondamenti certi, trasparenti e basati su dati reali, gestiti da esperti capaci.
Per questo non condivido, stante l’attuale classe politica e dirigenziale (spesso incline a emendamenti elettorali o aggregazioni sindacal-corporative che li spingono), strade di completa liberalizzazione degli accessi ai percorsi per i futuri insegnanti. Ritengo invece che alcuni condizioni debbano restare: le Graduatorie ad esaurimento non vanno mai più riaperte; il loro aggiornamento definitivamente fermato (troppe le iniquità create in quest’ultimo); i corsi per il TFA debbono partire assolutamente entro novembre 2011 con una selezione alta e terminare in modo che chi ne supererà gli esami finali (con commissioni dove debbono poter votare anche i rappresentanti delle scuole) possa entrare in albi regionali entro la fine di luglio 2012; ai corsi TFA non debbono poter partecipare docenti già abilitati.
Adesso provo a “dare i numeri”, perché un dialogo reale sulle soluzioni esige innanzitutto chiarezza di informazione. Su di un totale di 840.000 insegnanti nel 2007/2008 (esclusi gli insegnanti di religione, ma compresi i docenti di sostegno), circa 700.000 erano assunti a tempo indeterminato (di ruolo). Dei restanti 140.000, circa 22.000 erano assunti a tempo determinato annuale, mentre 118.000 lo erano a tempo determinato “fino al termine delle attività didattiche”. Il totale dei docenti statali in servizio si è ridotto, nell’anno scolastico 2010/2011, a 800.000 (nonostante la previsione dalla legge 133/2008, Piano programmatico per la scuola, avesse stabilito in tre anni 87.400 docenti in meno). Prendo questi dati e i seguenti dalla Ricerca 2010 Fondazione Agnelli, dalle elaborazioni di Tuttoscuola e da tabelle sindacali (Gilda, Cgil).
In assenza di dati precisi (anche se questo, con la massa di monitoraggi chiesti settimanalmente alle scuole, appare veramente inspiegabile) e applicando la proporzione del 2007/2008 si dovrebbero calcolare in circa 135.000 i posti non a ruolo. In effetti, fonti Gilda assegnerebbero nel 2010/2011 130.835 supplenze annuali (di cui 40.000 alle superiori) su 800.000 posti a docenza. Ci siamo vicini.
Nonostante i tagli degli organici i posti vacanti sono destinati ad aumentare perché la copertura dei pensionamenti nell’ultimo quinquennio è avvenuta per i due terzi. Infatti, nello stesso periodo non sono mai avvenute assunzioni tali da coprire il 100% dei pensionamenti. Con una media di 20.000 all’anno nello stesso periodo non si sono coperti i pensionamenti, calcolati dalle tabelle Miur (confermati da dati che Tuttoscuola ha pubblicato nel giungo 2011), sempre nell’ultimo quinquennio, da una media di 30.200: primaria 8.000, scuola dell’infanzia statale 2.600, scuola secondaria di I grado 9.400, istituti di II grado 10.200.
Quindi, se teniamo per buoni i numeri sindacali dei posti da coprire (127.000) e da questi togliamo i 35.000 delle prossime immissioni in ruolo, ma vi aggiungiamo la media dei pensionamenti (30.200, sempre in media, ovviamente: ma che si può fare se non abbiamo numeri reali certi?), il calcolo per almeno i prossimi due anni deve prevedere una copertura di 122.200 posti, dei quali il 50% da assegnare a posti derivanti da concorsi (e quindi da aspiranti provenienti dai nuovi abilitati) che sono non meno di 61.000.
Siamo ben lontani non solo dai 5.000 previsti nelle prime tabelle calcolate dal Miur, ma anche dalle cifre attuali che assegnerebbero ai giovani laureati futuri abilitati tramite il TFA non più di 18.000 posti. Come mai?
Una cosa è certa: o il Ministero con correttezza e trasparenza (come chiede tutti i mesi con i monitoraggi alle scuole) pubblica dati diversi, oppure, sulla base di quelli disponibili (per sommari che siano, ma fin’ora non discussi) l’affermazione gelminiana “occorre dare spazio al merito ed alle capacità dei giovani” è lontanissima da ogni corrispondenza con la realtà, se le tabelle che usciranno per i TFA avranno un totale di 18.000 posti
Queste tabelle poi dovranno essere obbligatoriamente aumentate per prevedere la possibilità di abilitazione per i docenti delle scuole paritarie che vi sono obbligati. I 61.000 dovranno essere aumentati almeno del 10% se si deve dar fede ai dati Fondazione Agnelli (che stima in almeno 80.000 questi docenti), tenendo sempre per buono il numero di 800.000 dei docenti delle scuole statali.
Non è finito il conteggio, perché una previsione ragionevole delle tabelle non potrà non tener conto della “mortalità universitaria”, salvo il rischio di fare come per i corsi universitari per infermieri che alla fine laureano un numero sempre molto inferiore al fabbisogno calcolato all’inizio. Di conseguenza, i totali finora snocciolati giungono a dover prevedere quasi 70.000 posti per i corsi TFA.
Sto dando i numeri? Può darsi, ma non sono miei: li ho presi dalle uniche fonti accessibili. C’è un unico modo per ridimensionarli: pubblicare i dati reali della scuola statale e non statale italiana che il “cervellone” del Miur possiede. Fino ad allora il Ministro ha un unico modo per dimostrare la verità dei principi affermati: assegnare alle Università i numeri suddetti, possibilmente tenendo conto della distribuzione regionale delle classi di concorso esaurite, della distribuzione dei fabbisogni regionali prevedibili.
Un’amministrazione che applica alle scuole statali in modo rigido le serie storiche degli alunni bocciati quando deve calcolare il numero di classi e docenti da assegnare, deve poter riuscire a utilizzare le serie storiche dei pensionati, dell’andamento delle popolazioni scolastiche, dei piani di riduzione delle istituzioni scolastiche per razionalizzazioni e quindi arrivare a previsioni ragionevoli per i futuri posti a docente da coprire.
Questo l’amministrazione lo può fare, fugando così ogni dubbio e favorendo un confronto chiaro e pacato. Ma poi le vere scelte toccano alla politica: l’avvio urgente dei nuovi corsi per l’abilitazione (pur con tutti i gravi limiti che il Regolamento Israel contiene); l’attuato della norma (L. 124/99) ricordata dallo stesso Ministro a Viareggio che prevede la ripartizione dei reclutamenti tra graduatorie esistenti (vecchi abilitati) e concorsi per futuri nuovi abilitati; la copertura in non più di tre anni di tutti i posti ragionevolmente stabili attraverso i due canali di reclutamento previsti dalla legge; l’avvio di un sistema di reclutamento veramente nuovo che affidi la funzione di indire concorsi rigorosi alle singole Istituzioni scolastiche autonome, come fanno comuni e ospedali.
Si tratta alla fine di rompere con il centralismo e trasferire il potere di assumere, come richiede il nuovo Titolo V, alle autonomie costituzionalizzate.