Edoardo Nesi, con il libro “Storia della mia gente” (Bompiani), ha vinto il premio Strega 2011. Non è un romanzo nel senso classico del termine, non è costruito su intrecci complicati e immaginari, non fa sognare, non è un feuilleton. Eppure si è imposto a libri corposi e molto più commerciali. E mi piace pensare che la vittoria sia stata decretata a partire dal sangue e dai sentimenti che pulsano nelle parole dell’autore. Non a caso il sottotitolo recita “La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia”.
Ecco. Le pagine del libro raccontano i tempi fulgidi dell’industria del tessile nella zona di Prato e la disfatta di tante piccole medie imprese a causa della globalizzazione del mercato e della conseguente perdita della qualità e particolarità dei prodotti. Quello che colpisce è che la rabbia non è descritta in termini freddi e accusatori, ma la rabbia nasce ed è alimentata da un grande e sconfinato amore per il proprio mestiere, tramandato e cresciuto di padre in figlio come un patrimonio.
Chiuso il libro, non ho potuto non fare un parallelo con il mondo della scuola. La scuola è “gridata” con molto clangore sulle pagine dei quotidiani, attraverso servizi televisivi, dentro i dibattiti da salotto. C’è rabbia, livore, che porta a dei j’accuse diversificati. L’importante è individuare la (o una) causa della disfatta attuale della scuola. Un giorno sono le riforme mal fatte, un altro la piaga dei precari che nessuno riesce a sanare, un altro ancora l’introduzione e la strutturazione del TFA (tirocinio formativo attivo) e, costante nelle geremiadi, la mancanza di soldi e di personale.
E la lista degli ostacoli che impediscono alla scuola di presentarsi al meglio come servizio alla comunità si può allungare a dismisura. Tutto vero, spessa la problematicità della situazione, e in alcuni casi sono giustificati i fuochi d’artificio che infuocano il cielo del pianeta scuola. Quello che sconcerta è che le azioni e le analisi sulla scuola sembrano dettate da rabbia, rabbia pura, che nasce e finisce nella rabbia.
E l’amore, la passione per la scuola e la professione di docente educatore dove sono? Le voci che si levano a partire dal cuore gonfio di desiderio che la scuola ritorni e continui a essere una costruzione di umanità e di crescita per chi insegna e per chi la frequenta è rara avis. Se si continua a pensare che si debbano risolvere tutti i problemi che ammalano la scuola perché quest’ultima possa attendere alla sua funzione si rischia di stare al palo, in un immobilismo che rende la stessa scuola un luogo di transito provvisorio, in attesa che la vita inizi alla fine della scuola. O, come ebbe a dire Richard Ford a Edoardo Nesi parlando di economia, “l’economia soccomberà a un atto dell’immaginazione”. La perfezione è nemica del bene.
O vogliamo continuare a crogiolarci nei disagi che abbrutiscono la scuola e chi la abita? Se dei genitori vivono una situazione economica difficile e sono presi da problemi della vita, non per questo smettono di amare i propri figli e aver chiaro ciò che a loro serve per crescere nel corpo e nell’anima. Invece, la scuola sembra gettare la spugna, in attesa di schiarite e di certezze dettate dall’esterno.
La scuola ha sempre avuto i suoi problemi, diversi a seconda dell’epoca storica. Già più di un secolo fa Leone Tolstoj sosteneva con amarezza che i bambini/ragazzi entrano nella scuola felici ed escono dalla scuola infelici. L’amore per la scuola e per l’umano deve far sì che ciò non accada. E perché non accada occorre aver chiaro e tener fermo il “senso” della scuola, il valore della scuola per una società e, soprattutto, per le giovani vite che la abitano.
I bambini e i ragazzi che vivono la nostra scuola non sono quelli che la pubblicità presenta: felici, appagati da una merendina o da un gioco di grido, accompagnati da adulti sempre sorridenti e disponibili. La realtà è spesso diversa. Oggi più che mai i soggetti in crescita hanno bisogno di punti di riferimento che li aiutino nei loro bisogni autentici e vitali. E la scuola può offrirli.
La scuola, quella vera, riaprirà i battenti a settembre. Molti dei problemi che stravolgono la scuola non saranno risolti, o risolti male. Ma la scuola non può arroccarsi nell’immobilità e disattendere aspettative (e perché no, anche ansie) di alunni e genitori. Anche in situazioni di crisi, di basso profilo delle istituzioni e di voragini finanziarie ci si può attivare, dando fondo alla propria imprenditorialità, alla propria creatività. Anche nelle situazioni più negative si può creare qualcosa di grande: bisogna credere in sé e nel futuro, quest’ultimo non visto come un buco nero, ma come una realtà che si può contribuire a costruire e a rendere meno buia.
Lo testimonia Mario Calabresi nel suo libro pieno di positività “Cosa tiene accese le stelle” (Mondadori). Calabresi tratteggia un grande viaggio nel vissuto del nostro Paese attraverso storie di chi, con varie professionalità, è stato capace di inseguire i propri sogni, affrontando a testa alta le sfide collettive e individuali del mondo di oggi. Imprenditori di sé dentro situazioni socio-economiche negative.
Si è imprenditori di sé nel proprio ambito professionale se si mantiene la certezza dell’importanza e dell’utilità del proprio fare, per sé e per le giovani generazioni che, con poca storia alle spalle, non possono essere privati di una speranza per il futuro, che non è solo dato da ciò che verrà, ma è già in nuce in un presente che vede tutti protagonisti della storia, personale e collettiva. La scuola ha da essere, nel modo migliore “possibile”, per chi la abita e per la società tutta che, senza di essa, perde un pezzo consistente di speranza e la molla all’azione.
Inizia tra poco un nuovo anno scolastico. Facciamo in modo, ognuno a proprio titolo, che non trascorra invano o, peggio, illividito da frustrazioni. Alziamo lo sguardo sul nostro cuore e sugli occhi vogliosi di verità e certezze dei nostri giovani, apprendisti della vita. Comunque andrà, ne sarà valsa sempre la pena.