Eurydice ha pubblicato uno studio sul trattamento economico di insegnanti e dirigenti scolastici in Europa.
A una prima lettura colpiscono particolarmente tre aspetti che inducono a una breve riflessione su motivazione, premialità e merito nella professione docente in Italia:
1. entità dello stipendio massimo raggiungibile da un insegnante;
2. differenziale fra stipendio minimo e stipendio massimo;
3. anni necessari per raggiungere il livello massimo stipendiale.
Nel nostro Paese lo stipendio più alto si assesta intorno a 38.745 euro lordi (circa 2.000 euro netti mensili). Tuttavia il dato, per essere confrontabile, dovrebbe tener conto in ciascun Paese di indicatori come il costo medio della vita e il livello medio degli stipendi di alcune categorie professionali. Al di là del puro dato numerico, deciderò quindi di ignorare che, rispetto a un collega italiano, in Germania un insegnante può arrivare a guadagnare il 65% in più (vd. tabella), mentre in Spagna e Francia, dove i livelli stipendiali e i prezzi al consumo sono molto vicini ai nostri, il maggior valore si aggira intorno al 23-27%, uno scarto decisamente inferiore ma capace di portare quel “netto” mensile da 2.000 a 2.500 euro: un incremento che, in termini di utilità marginale, è tutt’altro che trascurabile.



Anche lo scarto fra retribuzione massima e retribuzione minima (delta), misurato all’interno del medesimo ordine scolastico, presenta un valore (+57%) che, confrontato con i massimi stipendiali, colloca l’Italia agli ultimi posti fra i Paesi più sviluppati (in tabella Paesi con incrementi % inferiori, hanno massimali più elevati).
Ma il dato più interessante da incrociare con gli altri è il tempo necessario a raggiungere il livello massimo stipendiale. Qui infatti l’Italia è fra i Paesi con il tempo più lungo (35 anni), superata ancora una volta solo da alcuni Paesi con massimi retributivi più alti. Il dato è di notevole rilevanza. Con una grossolana simulazione, infatti, fatta 40 l’anzianità di servizio, in Danimarca un insegnante “esperto” percepirà il massimo per circa 30 anni, in Italia per 5 anni. Sono circa 420.000 euro lordi in più in carriera (senza contare il differenziale sul TFR). Numeri da affinare con altri elementi, ma che consentono di avere un prima idea delle differenze in campo.
Considerando che nel nostro Paese, se si esclude la recente sperimentazione realizzata con il progetto “Valorizza” (un una tantum per merito a pochi docenti), le progressioni di stipendio sono legate all’anzianità di servizio e operano ogni sei anni (fatto salvo il recente “blocco degli scatti” disposto in Italia che ha allungato ope legis questo tempo), e ricavando qualche indicatore dai pochi dati considerati, ci si accorge che le possibilità di migliorare, anche solo sul piano economico, la propria condizione professionale sono – per un insegnante italiano – limitate a un +16% dopo 10 anni e sono, inoltre, assolutamente indipendenti dal merito e dai risultati. Un abisso rispetto a Paesi dove si può arrivare a incrementi notevolmente superiori ma soprattutto dove sono possibili accelerazioni nei tempi dovute a migliori competenze, merito e risultati.



Per completare il quadro si aggiunga che l’unico percorso di progressione professionale nella scuola italiana è quello attraverso il quale un insegnante può concorrere all’incarico di dirigente scolastico o di dirigente tecnico. Come dire: chi qualifica le proprie competenze e ha migliori risultati di apprendimento con i propri studenti, non ha alcuna possibilità di sviluppo né alcun riconoscimento economico e di carriera. Veramente un grande stimolo alla professionalità.
Pur sapendo che per collegare gli “investimenti” ai “risultati” (i paesi che spendono di più, ottengono anche i migliori risultati?) si dovrebbero considerare gli esiti di apprendimento e, nel lungo periodo, i tassi di sviluppo, il quadro che esce dall’analisi dei dati Eurydice, è tale da farci ritenere, parafrasando Calamandrei (1), che la “circolazione” dell’“organismo” professionale docente in Italia, è lenta, potremmo dire “arteriosclerotica”, capace di demotivare sul piano economico e su quello dello sviluppo professionale, anche il più tenace fra i giovani insegnanti.
Il burn out nella professione docente affonda le sue radici in gran parte in queste cause ed è un fenomeno non ancora sufficientemente studiato, compreso, politicamente fronteggiato.
Da insegnante e formatore di insegnanti devo francamente dire che trovo sorprendente che ci siano docenti capaci di motivarsi e di motivare i propri studenti anche in queste condizioni, e trovo assai discutibile l’atteggiamento di chi giudica la professione docente senza conoscerne bene le caratteristiche.
Da genitore e da cittadino, sento la necessità, guardando al futuro dei miei figli e del Paese, di chiedere con più forza e convinzione un deciso cambiamento di rotta nelle politiche di governo della professionalità docente.  La classe dirigente non capisce abbastanza, non riesce a capire, che investire in questo campo è una necessità assoluta dalla quale dipende lo sviluppo del Paese.
Se si fa un giro nei corridoi delle scuole italiane in questi giorni, ci si rende conto che la situazione è quella di una comunità scolastica deprivata, con problemi enormi di risorse, costretta a chiedere alle famiglie “tasse” d’iscrizione, sempre più consistenti per far fronte alle necessità più elementari (anche carta igienica e fotocopie, per intenderci) e dove il concetto di investimento in professionalità viene lasciato alla lodevole, ma isolata, iniziativa del singolo docente.



Non basta, ahimé, il citato, e per ora estemporaneo, tentativo fatto con il progetto Valorizza nel campo del merito degli insegnanti: è necessaria una maggiore determinazione, un più ampio confronto e tempi di attuazione certi. Mi auguro che il ministro dell’Istruzione non sottovaluti l’urgenza del problema.
Se veramente ci crede, signora Ministro, spinga sull’acceleratore ed eserciti tutta la forza e il peso del suo ruolo e delle sue argomentazioni per un deciso investimento negli insegnanti: è necessario e indifferibile.
Un appello che estendo a Parlamento e Commissioni parlamentari: giacciono “nei cassetti” proposte di legge di cui non si parla più e che è invece il caso di discutere. Noi insegnanti non ci sottrarremo al confronto e alle responsabilità.
Non è possibile che nel terribile mix fra istanze di diritto del lavoro e istanze del diritto alla qualità nell’educazione, si debba assistere alla manichea contrapposizione fra lotta alla disoccupazione e qualità del servizio scolastico. Nessuno si sognerebbe mai di mettere in dubbio le gravi condizioni in cui si trovano gli insegnanti precari che a ogni inizio anno scolastico non sanno se potranno assicurare a sé stessi e alle proprie famiglie le risorse necessarie per una vita dignitosa: è un problema di assoluta rilevanza. Ma non è più sostenibile che le scelte politiche in campo educativo siano sotto il costante ricatto di chi brandendo, da una parte e dall’altra, queste tragiche situazioni, omette di praticare concretamente le strette vie d’uscita dalla crisi in cui versa la scuola come istituzione formativa.
Quanto compete alla politica infatti, in questi casi, è di riuscire a trovare delle alternative concretamente attuabili per la soluzione dei problemi. I problemi relativi all’occupazione, alla deprecarizzazione del lavoro si risolvono con politiche del lavoro, quelli della qualità delle competenze professionali in campo educativo con politiche della formazione, quelli relativi ai sistemi motivazionali con politiche di gestione delle risorse umane. Più che puntare su improbabili “punti d’incontro” è forse più opportuno pensare a compatibili “assi” di sviluppo delle soluzioni.

Si possono chiedere agli insegnanti di domani standard di servizio qualificati solo se si è capaci di metterli in condizioni di lavorare al meglio, se si è in condizioni di farli accedere alla professione con prospettive, strumenti e meccanismi premianti e motivanti, capaci di orientare l’investimento professionale per l’insegnamento/ apprendimento in un investimento per sé stessi e per la società. Ciò è ancor più urgente in una fase in cui l’altra istituzione educativa, la famiglia, è in grande difficoltà: essa chiede alla scuola di esercitare efficacemente la sua funzione educativa e chiede a chi della scuola ha il governo, di creare al più presto le condizioni necessarie a promuoverne lo sviluppo.
Freud parlava nei suoi scritti di tre mestieri impossibili: curare (la mente), educare, governare. Mi spiace dover mettere in guardia oggi come dall’intreccio fra educare e governare possa nascere una miscela capace di rendere l’una attività peggiore dell’altra. Infatti: istituzioni educative governate male, “producono” cittadini e professionisti mediocri, che a loro volta esprimeranno una classe politica inadeguata; una eventualità da scongiurare con ogni sforzo.
Lo studio Eurydice su livelli stipendiali e progressioni economiche degli insegnanti in Europa non esaurisce l’argomento, assai più complesso e da approfondire, ma offre l’occasione per interrogarsi sul significato di valori e differenze espressi dallo studio, e per rimboccarsi tutti le maniche affinché fra qualche anno si possa finalmente dire che in Italia il circolo vizioso è stato interrotto e che la rotta è stata finalmente invertita.

(1) “Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue” Piero Calamandrei, 1950

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