La conferenza stampa di ieri del ministro Gelmini corrisponde ad una logica, quella ministeriale, che purtroppo non si accorda con la reali esigenze di un Paese che proprio adesso, in piena crisi, avrebbe bisogno di puntare su educazione, formazione, valorizzazione della professionalità docente.
Nel 2008, in occasione dell’audizione alla Commissione VII della Camera il ministro disse: “Nella scuola abbiamo troppi dipendenti e poco pagati, con una carriera pressoché piatta. Non c’è quindi da stupirsi se tantissimi bravi maestri e professori non si sentono motivati, se tantissimi giovani preparati, con la vocazione all’insegnamento, scelgono altre strade; se lo Stato dà poco, non potrà che chiedere poco, in una spirale di frustrazione inarrestabile”. Il discorso programmatico, che riscosse anche le simpatie della sinistra riformista, puntava sui nuovi fronti: il riscatto dei docenti, la cultura del merito, l’autonomia scolastica, la parità tra scuola statale e non statale.
Ora siamo scesi invece ai toni autocelebrativi e, nella sostanza, ad una pioggia di numeri in taluni casi difficile da verificare (sarà poi vero quel 4% di classi con meno di 12 alunni? E quello 0,6% di classi con più di 30 non era, meno di un mese fa, inferiore allo 0,4%?) che esprime la volontà di razionalizzare le risorse senza che ad essa si accompagni un percorso che porti la scuola italiana a superare il vizio del centralismo che si avvita su se stesso.
Prendiamo in considerazione, dunque, alcuni di questi aggregati numerici. Saranno immessi in ruolo (le operazioni stanno per concludersi) 66.000 unità di personale, di cui circa 30.000 docenti e 36.000 personale Ata, di cui oltre 26.000 sono collaboratori scolastici (ex bidelli). Non capiamo quali elementi di novità sostanziale contenga questa manovra che, se da una parte alleggerisce (di poco) le graduatorie dei docenti (dichiarate ad esaurimento), dall’altra insiste nel confondere la professione docente con il ruolo impiegatizio, equiparando l’insegnamento ad una funzione programmata dallo Stato: stesso contratto nazionale, stesso trattamento normativo. Non era il caso di cambiare mettendo in campo, almeno inizialmente, un nuovo sistema di reclutamento, centrato sull’autonomia delle scuole e sulla carriera autonoma degli insegnanti?
E, dulcis in fundo, i numeri relativi alle nuove lauree per l’insegnamento e i percorsi abilitanti destinati ai giovani aspiranti docenti. Con dovizia tanto di criteri di calcolo (ma i dati di partenza dove sono?) che di macro-ripartizioni (generiche, però), sono stati forniti i numeri dei posti programmati dal ministero per la formazione iniziale e l’abilitazione dei docenti nei prossimi anni.
Tenendo anche conto delle esigenze delle scuole paritarie, viene fuori un totale di 18.389 posti che, raffrontato con gli oltre 200.000 insegnanti inseriti nelle graduatorie provinciali, cui si aggiungono altri 20.000 abilitati fuori dalle graduatorie (dati forniti dal ministro), sembrerebbe avvalorare la tesi di una operazione equa. In realtà qui si gioca il futuro della scuola, almeno dal punto di vista della concezione della professione docente e dei diritti, legittimi in entrambi i casi, degli iscritti nelle graduatorie e dei giovani insegnanti (neolaureati o docenti senza abilitazione). Come più volte si è sottolineato su queste pagine, l’abilitazione non coincide con il reclutamento, stante inoltre il fatto che vi sono oltre 40.000 potenziali insegnanti che si sono laureati dopo lo stop alle SSIS e che magari in questi anni hanno anche lavorato nella scuola, perché in certe province le graduatorie erano esaurite.
Sottoponendo il dato ad osservazione, v’è da rilevare che i posti in più a Scienze della Formazione Primaria (5.151) sono da comparare con i 4.838 dello scorso anno e che gli iscritti di quest’anno dovranno farsi cinque anni anziché quattro. Restano i 12.500 nuovi abilitati ogni anno (per l’ultima SSIS dell’a.a. 2008/09 sempre il Miur aveva fissato in 12.389 i posti disponibili: peccato che poi sia stata sospesa e che da allora siano passati altri due anni accademici senza possibilità di abilitarsi per gli aspiranti insegnanti che intanto continuavano a laurearsi). Numeri strettamente legati al 50% dei pensionamenti previsti, anche se per il momento non sono contemplati concorsi per questi nuovi abilitati (e allora perché legare le abilitazioni ai pensionamenti?). Se poi si scorporano ulteriormente le cifre fornite, ricorrendo a documenti esterni alla conferenza di oggi, ma comunque forniti dal Miur ai sindacati, appare ulteriormente l’angustia di una manovra che avvantaggia i precari abilitati rispetto a chi desidererebbe ricevere una semplice idoneità all’insegnamento (stiamo parlando dell’abilitazione). A parte Scienze della Formazione Primaria, di cui con decreto sono già stati assegnati i posti per il prossimo anno accademico, non si parla di alcuna partenza dei corsi di laurea magistrale per l’insegnamento nella scuola secondaria di secondo grado e, quanto ai Tfa (Tirocinio Formativo Attivo), nel numero dei 12.500 si sommano con tutta probabilità sia i corsi abilitanti per l’insegnamento nella scuola secondaria di primo grado, che i corsi per la secondaria di secondo grado. La conseguenza potrebbe essere che non in tutte le Regioni vi siano corsi accessibili per tutte le classi di concorso, come prescrive il Regolamento sulla formazione iniziale, con inevitabile disagio per i pochi che riusciranno a superare le selettive prove d’accesso, quando e se si apriranno.
In conclusione, se l’attuale politica ministeriale ha puntato su un certo riassetto della istruzione, soprattutto nel campo dei licei e dell’istruzione tecnica (ma quella professionale versa ancora in condizioni allarmanti), non si può dire che abbia inteso farlo offrendo un segnale nuovo e innovativo sul versante della professionalità docente.