Caro direttore,

L’incontro di sabato scorso tra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, l’on. Maurizio Lupi e alcuni tra i promotori dell’Appellogiovani ha raggiunto un accordo con piena soddisfazione di tutti.

La disputa di questi mesi sulle nuove regole di abilitazione dei docenti è stata una discussione vera ed importante, anche se sottovalutata dai media, che l’hanno interpretata spesso come contrapposizione di parti invece che problema concreto. La questione invece ha un significato di primaria rilevanza politica e sociale, perché riguarda la modalità con la quale si formeranno e recluteranno i docenti del futuro, quindi riguarda il futuro della scuola, e di conseguenza il futuro del nostro Paese.



Tutto nasce dall’attuazione del regolamento n. 249 del 10 settembre 2010 sulla formazione iniziale per gli insegnanti, che introduce l’accesso a numero chiuso alle facoltà abilitanti all’insegnamento. Inizialmente non vi fu una reazione negativa all’introduzione del numero chiuso, che anzi fu giudicato come la soluzione definitiva dello storico precariato scolastico. Quando però iniziarono ad emergere i primi numeri regionalizzati per l’accesso sia alle facoltà abilitanti sia al Tirocinio Formativo Attivo (TFA) – percorso abilitante transitorio rivolto ai giovani già laureati o iscritti alle facoltà – ci si rese conto che si trattava di poche decine di unità per le diverse classi di concorso.



Velocemente si diffuse lo sgomento tra i giovani che dal 2008 – da quando furono chiuse le scuole SSIS per l’abilitazione – erano in attesa di un’occasione per ottenere l’abilitazione ed avere la possibilità di iniziare la carriera nella scuola: questi numeri non lasciavano speranza. Ciò era dovuto al fatto che quei primi numeri nascevano da un calcolo del fabbisogno del prossimo triennio viziato da alcuni fattori:

Il fabbisogno è ridotto a causa della maggior efficienza raggiunta dal sistema scolastico attraverso la riduzione del monte ore dei percorsi di studio e l’aumento del rapporto medio studenti/docenti;



è appena stata effettuata un’immissione in ruolo su tutti i posti vacanti e disponibili esistenti per l’anno scolastico 2011/2012: 30 mila docenti tutti provenienti dalle graduatorie ad esaurimento.

Sono stati considerati prioritari docenti già abilitati anche se non inseriti nelle graduatorie ad esaurimento.

La conseguenza è che, tolto tutto ciò, i posti residuali da assegnare ai giovani e quindi da utilizzare per l’accesso a numero chiuso diventavano irrisori. Il dibattito che ne è seguito è stato guidato da due domande fondamentali: è giusto limitare l’accesso alle facoltà per l’abilitazione – o ai percorsi di TFA in via transitoria – al fabbisogno programmato di docenti, per evitare che si produca precariato? In secondo luogo, come si deve calcolare il numero di posti di accesso alle facoltà? Dato il fabbisogno programmato di docenti complessivo, bisogna dare priorità ai 200mila docenti precari iscritti alle graduatorie ad esaurimento, oppure contemperare l’esigenza di stabilizzare il precariato con quella di garantire anche l’accesso ai giovani?

Come dicevo all’inizio la soluzione individuata è quella che ritengo essere la migliore: da un lato non viene meno al principio dell’abilitazione all’insegnamento attraverso l’accesso a facoltà specialistiche a numero chiuso, dall’altro ripensa la modalità di calcolo del fabbisogno di docenti in modo tale da salvaguardare l’ingresso di un numero consistente di giovani.

Le facoltà specialistiche sono la strada maestra per andare verso docenti professionisti. In Italia, il nodo della professionalità del docente e della sua formazione non è mai stato veramente sciolto. La cultura idealistica ha diffuso e legittimato un’immagine di insegnante intellettuale e uomo di cultura, che non aveva bisogno di imparare il mestiere. È stata invece a lungo sottovalutata la dimensione professionale dell’insegnamento, che fa perno non soltanto sulle buone intenzioni, ma soprattutto sulla reale capacità di affrontare scientificamente i temi dell’apprendimento.

Inoltre fino ad oggi troppo spesso è diventato insegnante semplicemente chi aveva la pazienza di vivere una situazione di precariato fino ai 40 anni ed oltre. Il precariato nasce dalla mancanza di previsione e programmazione dei posti necessari e dall’assenza di un reclutamento ordinario nel tempo. Si tratta di una modalità di accesso alla professione spesso priva di selezione, dove l’abilitazione è stata spesso ottenuta in itinere, anche attraverso scorciatoie, quali i “corsi abilitanti”, vere e proprie sanatorie.

Per questo meglio limitare l’accesso alla professione all’inizio del percorso di studi: si evitano aspettative al posto fisso spesso vane. Detto ciò è però altrettanto importante che il numero di posti di accesso alle facoltà abilitanti sia adeguato da un lato a garantire un afflusso di giovani docenti nella scuola, e dall’altro a scongiurare il pericolo di perdere l’importante patrimonio di un’offerta universitaria di qualità.

A regime questo pericolo non si vede: il Ministero calcola in oltre 18 mila ogni anno il numero di accessi alle lauree specialistiche abilitanti all’insegnamento.

Per quanto riguarda questi primi anni, condiviso che i posti sono riservati per un 50% agli attuali iscritti alle graduatorie e per un 50% ai giovani, si è giunti alla conclusione di aumentare ulteriormente i numeri di accesso al TFA, portandoli ad oltre 13 mila l’anno, in considerazione del fatto che vi è un elevato fabbisogno di docenti anche nelle scuole paritarie e delle migliaia di giovani laureati dal 2008 che attendono di abilitarsi.

In tali condizioni è sicuramente meglio abilitare qualche docente in più rispetto al fabbisogno minimo stimato, anche a costo di non poterne prevedere un inserimento in ruolo immediato, piuttosto che interrompere per un triennio l’accesso di giovani nella scuola e contemporaneamente mettere in crisi il sistema di offerta universitario.

Per questi motivi, sia di merito sia di metodo, considero la conclusione della vicenda un ottimo risultato. Certamente sarebbe un errore pensare che non vi siano altre questioni da affrontare con la massima considerazione. Per rendere attrattiva la professione, serve un intervento a livello contrattuale, che consenta di differenziare la carriera degli insegnanti, di separare funzioni e figure, aprendo in modo volontario ad un impegno anche maggiore di quello attuale, diversificando le retribuzioni oltre che le responsabilità e i compiti. Bisogna inoltre rendere per i giovani la professione insegnante attraente, stimolante e concorrenziale anche economicamente rispetto ad altri percorsi di carriera. Se abbiamo ormai allineato il costo dell’istruzione per studente alla media Ocse, i docenti guadagnano invece ancora troppo poco.

Non si tratta di spendere di più, ma di spendere meglio. In Italia, a fronte di un costo per studente maggiore della Germania, dopo 15 anni di insegnamento un docente di scuola superiore, a parità di potere d’acquisto, guadagna 35mila dollari contro una media ocse di 45mila, mentre in Germania addirittura 63mila dollari. Il perché è facile da capire: in Italia c’è un insegnante ogni 10,7 studenti, mentre in Germania uno ogni 15 studenti;  in Italia gli insegnanti insegnano per 601 ore l’anno senza un ulteriore lavoro a scuola,  mentre in Germania insegnano per 714 annue ma lavorano ben 1750 ore complessive a scuola.

E’ poi da affrontare con urgenza il tema della modalità di reclutamento e dell’istituzione dell’albo regionale dei docenti abilitati.

Appare decisivo introdurre nuove modalità di reclutamento del personale docente, in coerenza con i principi di qualificazione del servizio educativo e del personale docente, di incremento degli spazi di autonomia delle Istituzioni, di ottimizzazione e utilizzo efficace delle risorse.

Oggi le scuole non hanno alcuna voce in capitolo nella scelta dei propri insegnanti. Il reclutamento risponde ancora ad una logica ed a meccanismi impersonali basati essenzialmente sull’anzianità ed in cui non trovano spazio il riconoscimento e la valorizzazione dell’effettiva professionalità del docente. Vi è la necessità di un confronto aperto e leale sul passaggio ad un reclutamento effettuato dalle scuole stesse, singole ed in rete, attraverso una selezione dei docenti inseriti nell’albo regionale che tenga conto delle loro specifiche esigenze – tipologia, dimensioni, contesto socioeconomico, etc. – oltre che del loro Progetto di Istituto. Questo già accade in molti Paesi (Danimarca, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia, Finlandia, Svizzera e Svezia) e sono anni che tutte le analisi evidenziano che i paesi dove le scuole hanno grande autonomia e possono selezionare direttamente il personale ottengono i migliori risultati.

Infine, se il reclutamento diretto degli insegnanti è un primo importante passo, in prospettiva l’autonomia delle scuole dovrà essere rafforzata fino alla piena autonomia finanziaria e di gestione: il finanziamento alle scuole statali non dovrebbe più avvenire attraverso il pagamento del personale da parte dello Stato, ma attraverso un finanziamento complessivo alla scuola, gestito poi in autonomia; il finanziamento alle scuole può avvenire in modo diretto, proporzionale al numero di studenti frequentanti, secondo il modello della “Quota capitaria”. Un finanziamento di questo tipo eliminerebbe ipso facto tutta la burocratica gestione della scuola: affidando la gestione del personale alle scuole e liberandole da vincoli rigidamente prefissati si potranno più facilmente raggiungere gli obiettivi di maggiore qualità ed efficienza del sistema.

Leggi anche

SCUOLA/ Tfa, perché il Miur obbedisce alle università telematiche?SCUOLA/ Tfa, caos in arrivo: ecco chi ha sbagliatoSCUOLA/ Immissioni in ruolo, evviva il concorso-beffa (e i sindacati stanno zitti)