Cerchiamo di fare chiarezza sul solito episodio della serie “caro libri” puntualmente andato in onda anche quest’anno, nonostante i ben più gravi guai finanziari che ci affliggono in questo caldo scorcio d’estate. Uno stucchevole rito che ormai non riserva più nessuna sorpresa, come per altro avviene alla maggior parte delle serie televisive che ci vengono propinate a tutte le ore del giorno e della notte, quasi esclusivamente per agganciarci un certo numero di messaggi pubblicitari. E’ la tv commerciale, bellezza! E ciò detto nessuno si scandalizza, anche se i consumi ristagnano in tutti i settori produttivi, anche i più propagandati, e non solo sul terreno della cultura e dell’istruzione.



Le accuse contro i libri scolastici sono sempre le stesse, ed ovviamente gravemente allarmanti dal punto di vista della spesa, a prescindere da qualsiasi riscontro con la realtà dell’andamento dei prezzi. Ad altri aspetti ed alla funzione del libro nei processi formativi nessuno fa caso. Eppure qualche riflessione, connessa con le riforme in atto nella scuola, varrebbe la pena farla.



Il primo obiettivo sono dunque gli aumenti dei prezzi, anche se in realtà sono mediamente inferiori all’inflazione. Eppure vengono prospettati come scandalosamente cresciuti da un anno all’altro. Il più delle volte la denuncia è corredata da percentuali, in termini statistici, per dimostrare che siamo un popolo di matematici, accanitamente obiettivi ed ancorati alla forza dei numeri. Peccato che il più delle volte siano numeri campati per aria. Vengono denunciate cifre a casaccio del genere “quest’anno aumenti del 20%” come mi è capitato di sentir dire da uno studente interpellato in una delle consuete interviste volanti dal vivo, trasmesse durante i telegiornali, in modo che lo sdegno sia condiviso al massimo. Mai che l’intervistatore o intervistatrice chieda “davvero? Ma è gravissimo. Di che libro parli? E quanto costava l’anno scorso e quanto costa adesso?” Evidentemente nessun conduttore/conduttrice si avventurerebbe su un terreno così scivoloso, con il rischio di scoprire che il dichiarante indignato non sa niente di percentuali e statistiche, non conosce o non ricorda il prezzo di listino di un qualsivoglia libro l’anno scorso né il prezzo dello stesso libro quest’anno, anche perché i libri li compra da sempre di seconda o terza mano. Né gli capita mai di avere in mano un qualche scontrino per fare le opportune verifiche.



Tra l’altro l’imponente e diffuso ricorso all’usato sbugiarda palesemente l’altra “denuncia” che fa parte dello stesso copione, anche questo sempre uguale a se stesso, secondo il quale ci sono in commercio libri sostanzialmente immutati da un anno all’altro, che devono essere comprati nuovi solo perché hanno cambiato il titolo e qualche foto inserita nel testo. Se questa pratica rispondesse a verità il comportamento sarebbe davvero scorretto e sanzionabile immediatamente dalla stessa Associazione degli Editori, il cui codice di autoregolamentazione fissa i limiti delle modifiche che giustificano il cambiamento del codice di ciascun testo.

Alla richiesta esplicita di indicare esattamente i casi (titolo, autore, editore) in cui la regola non è stata rispettata, non si riesce mai ad avere risposte puntuali. Meglio e meno faticoso e responsabilizzante sparare nel mucchio, come fa chi non ama i libri e sta semplicemente cantando un ritornello di successo.

Eppure l’AIE, che ha aggiornato il suo codice nel 2010, in rapporto alle nuove norme in materia di libri di testo proprio perché vi fosse il massimo della trasparenza nei comportamenti dei propri associati, lo ha subito ampiamente propagandato inviandone copia a tutte le scuole e chiedendo la collaborazione di dirigenti e docenti per stroncare sul nascere eventuali scorrettezze.

Fra i comportamenti riprovevoli mi sembra difficile, come taluni vorrebbero, far rientrare aumenti dei prezzi dei libri mediamente inferiori all’inflazione, facili da controllare tra un anno e l’altro attraverso comparazioni oggettive, listino su listino, titolo su titolo.

Un’ultima battuta mi sia consentita sui tetti di spesa che non possono includere i testi consigliati accanto a quelli obbligatori, semplicemente perché si tratta di opere che molto spesso sono già presenti nelle case (dizionari, atlanti, classici della letteratura, ecc.) e che fanno (o dovrebbero) far parte della dotazione di una famiglia, come investimento culturale, come presidio rispetto all’analfabetismo di ritorno, come pronto soccorso quando il computer fa le bizze e la connessione va a rilento. E’ evidente che se ad ogni passaggio di classe si vende tutto ciò che si ritiene non più utile nell’immediato, una piccola biblioteca, almeno dei consigliati, non potrà mai formarsi ed arricchirsi tanto da divenire un piccolo patrimonio di saperi in qualche modo e misura fondamentali e polivalenti.

Ed è proprio su questo investimento in opere durature, che fanno la ricchezza non solo immateriale di una casa e sono una significativa premessa per un futuro di vita non banale, che si dovrebbe orientare l’adempimento concreto di quanto la Costituzione dice, in termini di risorse da destinare al diritto allo studio,  in primo luogo a favore dei capaci e meritevoli che devono essere messi in condizione di sviluppare il meglio di sé anche se privi di mezzi.

Quanto ai tetti di spesa, se ogni mattina si mettesse nel salvadanaio un euro da spendere per i libri di testo, al momento dell’acquisto ce ne sarebbero più di 300. Abbastanza per coprire i tetti fissati per gli anni iniziali di qualsiasi percorso di studi, e per avere – negli anni di corso successivi, in genere meno onerosi – ampi margini nel caso di più figli e o per ulteriori esigenze. Un euro al giorno non manda in rovina nessuno, e forse avanza anche qualche spicciolo per comprare una tantum Le avventure di Pinocchio che sul libro scolastico e sul paese dei balocchi contiene pagine esemplari.

Eravamo allora più poveri, ma sapevamo guardare avanti. E oggi?