Fare disinformazione – soprattutto quando si parla di scuola paritaria – è ormai una missione per alcuni giornali. Ultimo esempio, in ordine di tempo, è l’articolo apparso il 22 settembre su La Repubblica.it: “Scuole paritarie, salta tetto minimo. Pochi alunni, insegnanti in nero”. Un titolone ad effetto, studiato apposta per alimentare il pregiudizio e proporre una lettura dell’articolo tutta in chiave negativa, senza spiegare in realtà come stanno effettivamente le cose.
Proviamo noi, allora, a fare un po’ di chiarezza. Il contenuto dell’articolo fa riferimento a due sentenze del TAR del Lazio (n.7265/09 e n.7269/09, passate in giudicato) richiamate in questi giorni da una nota del MIUR, che hanno annullato parte di una disposizione emanata a suo tempo dall’allora Ministro Fioroni (D.M. n.267 del 29.11.2007). Tale disposizione prevedeva che “all’atto della presentazione dell’istanza per il riconoscimento della parità, il gestore o il rappresentante legale della gestione dichiari l’impegno a costituire corsi completi e a formare classi composte da un numero di alunni non inferiore ad 8, per rendere efficace l’organizzazione degli insegnamenti e delle attività didattiche“. Una norma comprensibile e anche condivisibile nella sua preoccupazione, tuttavia illegittima.
Perché infatti questa sentenza? E’ semplice: i requisiti per ottenere il riconoscimento della parità sono stati fissati, una volta per tutte, dalla L.62/2000 (firmata dal Ministro Berlinguer…), e non contemplano affatto la sussistenza di un numero minimo o massimo di alunni per classe. Ciò non significa automaticamente che le scuole paritarie debbano costituire classi con numeri irrisori di alunni (che, tra l’altro, non sarebbero nell’interesse di nessuno, poiché economicamente non sostenibili), ma semplicemente che il numero degli alunni per classe – come già spiegato – non fa parte dei requisiti per ottenere il riconoscimento della parità. Punto. E’ la legge 62/2000 che lo dice, non se lo sono inventato “i soliti approfittatori/sfruttatori delle scuole paritarie”….
Il requisito del numero minimo è previsto invece dal Decreto Ministeriale che annualmente ribadisce i criteri e i parametri per l’assegnazione dei contributi alle scuole paritarie.
Quello di quest’anno (il DM 25/2011), per esempio, prevede ancora una volta che i contributi siano destinati “alle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo e secondo grado, in possesso del riconoscimento di parità nell’anno scolastico”, ma che comunque siano erogati solo in presenza di classi formate da un minimo di 8 alunni per le secondarie, 10 per le primarie, 15 per le sezioni dell’infanzia.
Dunque: una scuola può essere paritaria ma non accedere ai contributi, qualora abbia classi formate da un numero di alunni inferiore a quanto previsto dai decreti ministeriali. Bastava informarsi prima di scrivere. Era sufficiente una piccola ricerca su internet per scoprire che la sentenza del TAR non intende affatto favorire le scuole “private”, ma semplicemente impedire che una norma di fonte inferiore annulli o ne modifichi una di fonte gerarchicamente superiore.
Quanto poi al lavoro in nero, se davvero questi “paladini della giustizia e dell’equità sociale” conoscono luoghi di lavoro che violano la legge in questo modo, sporgano regolare denuncia. Non è onesto scrivere che le scuole paritarie assumono in nero, sfruttando e sottopagando i lavoratori; è vero, sì, che esistono i famigerati “diplomifici”, che possono permettersi di non ricevere contributi statali perché tanto ricevono i soldi da chi paga per acquistare un titolo di studio, e sono situazioni che vanno davvero combattute con ogni mezzo. Non è giusto, però, far di tutta l’erba un fascio, perché queste “scuole” sono assolutamente una esigua minoranza nel mondo degli istituti paritari.
Conosciamo bene, infatti, tanti enti gestori costituiti da cooperative di famiglie, associazioni del non profit, realtà del privato sociale, che “si fanno in quattro” per l’educazione/istruzione delle giovani generazioni, mantenendo in vita con enormi sacrifici scuole di eccellenza e dando un lavoro dignitosamente retribuito alle persone che vi lavorano.
Ma questo, forse, a Repubblica non interessa né saperlo né farlo sapere, perché non fa parte del suo “teorema”.