La recente riforma della scuola superiore che ha modificato in maniera consistente la distribuzione delle ore di insegnamento della storia dell’arte ci offre lo spunto per una riflessione sulla natura e sull’utilità di tale disciplina.  Si legge spesso che l’Italia possiede più di un terzo dei beni culturali di tutto il mondo. La percentuale varia a seconda dell’enfasi e delle intenzioni di chi scrive, ma è certo che il nostro Paese ha una grande responsabilità nei confronti dell’arte. Ci si chiede però se a questa quantità corrisponda altrettanta coscienza nei cittadini della ricchezza che l’Italia possiede.



Un’altra ricorrenza sulla stampa riguardo al nostro patrimonio culturale è quella dei cosiddetti “giacimenti culturali”. Per cui si ripete che il petrolio dell’Italia è l’arte, le sue bellezze artistiche e culturali. Questo è un altro elemento ricorrente nelle riflessioni sul destino del Paese, che emerge soprattutto nei tempi di crisi.



Chiunque sia stato all’estero ha constatato che nell’immaginario degli stranieri l’Italia è ricordata soprattutto per la sua arte. Persino prima che per le sue risorse paesaggistiche, anche se è molto difficile distinguere l’arte dal suo contesto paesaggistico e culturale. Paradossalmente c’è molta più coscienza della vocazione culturale dell’Italia in chi non è italiano rispetto a chi è nato e cresciuto qui. È evidente che questa scollatura sia causata da un vuoto di conoscenza, o più propriamente da una lacuna educativa, delle generazioni più giovani. Di coloro che sono ancora nel tempo della formazione o ne sono appena usciti.



D’altro canto un gran numero tra gli studenti delle nostre università frequenta corsi che hanno nell’arte il loro fulcro. Oltre al tradizionale indirizzo umanistico di Storia dell’arte e della critica, alcuni corsi si occupano degli aspetti più strettamente tecnici, come le Scienze dei beni culturali, o gestionali, come Economia e gestione dei beni culturali. Tutti orientamenti che hanno al loro centro l’opera d’arte, considerata da diversi punti di vista.

In tutto questo c’è un punto morto, un buco nero. Sembra che siano state tagliate le connessioni tra questo grande interesse per le professioni artistiche e la stima e il valore che viene dato all’opera d’arte, e la sua radice che è la nostra cultura. Chiunque veda gli affreschi del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena o una Madonna di Raffaello non comprenderà appieno le immagini descritte se non si fermerà almeno un attimo ad  osservare le colline senesi e quelle marchigiane, quelle stesse che compaiono sullo sfondo dei dipinti citati. Constatazione che viene naturale a ciascun italiano, indipendentemente dal suo grado di istruzione e di conoscenza della storia dell’arte.

Giulio Carlo Argan, uno dei più importanti storici dell’arte e critici del secondo ‘900, autore anche di uno dei primi e più studiati manuali di storia dell’arte per la scuola superiore, sosteneva che l’opera d’arte non si possa spiegare; il che destituirebbe di senso l’insegnamento della disciplina di Storia dell’arte. Se non fosse per quell’altra importante sua affermazione, e cioè che l’arte è un sistema di relazioni. Perché nell’opera d’arte si concentrano una infinita e a volte impercettibile rete di connessioni con ciò che è stato prima, con ciò che è stato accanto, alla radice di quell’opera. L’insegnamento della storia dell’arte non può che avere questo fondamento: aiutare gli studenti a individuare e comprendere queste relazioni.

Negli Stati Uniti la storia dell’arte non viene insegnata nelle scuole dell’obbligo proprio perché non può prescindere da una molteplicità di nessi che riguardano il suo significato. Il che vuol dire per la maggior parte dell’arte antica un significato religioso. Questo, in uno Stato che ha fatto dell’uguaglianza assoluta il suo principio fondante (che viene applicato nel dettaglio di ogni aspetto del vivere), non può essere accettato. Perché parlando di arte a soggetto religioso si finirebbe inevitabilmente a parlare di una religione che potrebbe non essere condivisa da tutti gli studenti. Questa che è una oggettiva limitazione, permette che nelle stesse scuole americane sia prassi normale che le classi frequentino assiduamente i musei. Se viene limitata la conoscenza storica dell’arte, allo stesso tempo è incentivato l’incontro diretto con l’opera d’arte.

Ne consegue  che in ogni museo degli Stati Uniti sia presente un team di esperti che si occupa dei servizi educativi, cioè di tutte le azioni necessarie per favorire l’incontro dei fruitori con le opere del museo. Gli insegnanti possono usufruire di diversi tipi di risorse per la propria formazione, che vanno dalla biblioteca specializzata in didattica dell’arte ai corsi di formazione, ai kit di materiali e strumenti da utilizzare in classe, alle innumerevoli risorse on-line, per non parlare del servizio di consulenza personalizzata da parte degli esperti del museo. Tutto ciò per permettere all’insegnante di essere il principale mediatore tra gli studenti e l’opera.

Tornando alla domanda da cui prende spunto questo articolo, cioè quale spazio abbia la disciplina di storia dell’arte nel curricolo scolastico in Italia, concluderei affermando che in Italia non si può insegnare storia, letteratura, filosofia senza riferirsi alla storia dell’arte. Persino la matematica e l’economia hanno avuto a che fare con la storia dell’arte, come documentano le pratiche di ragioneria applicate nella gestione della Fabbrica del Duomo di Milano fin dalla sua nascita nel XIV secolo o i disegni di Leonardo per il trattato del matematico Luca Pacioli, per ricordare solo alcuni esempi.

L’auspicio è che la scuola coltivi con cura il rapporto generativo con l’arte nel suo sviluppo storico, utilizzando non solo la disciplina di storia dell’arte, ma considerandola anche nei percorsi trasversali interdisciplinari.