La complicata vicenda della formazione e del reclutamento dei nuovi docenti, tema ampiamente dibattuto su questo giornale, ha visto elementi di novità dopo la conferenza stampa del ministro Gelmini lo scorso 31 agosto, quando la titolare di Viale Trastevere ha dichiarato i «numeri» dei docenti che saranno immessi in ruolo dalle graduatorie, e quelli relativi ai nuovi docenti da abilitare. Il dibattito offre l’occasione a Giorgio Israel di fare con ilsussidiario.net un punto sull’intera vicenda, e sui criteri che stanno prevalendo dopo le iniziali dichiarazioni riformatrici, nella scrittura delle «riforme» della scuola e dell’università. «La politica ha manifestato la sua debolezza di fronte a corporazioni, sindacati e tecnocrazie ministeriali, cedendo alla logica della scuola come ammortizzatore sociale» dice Israel. Il futuro? «Confesso di essere pessimista. Ci vorrebbe un’inversione totale di orientamento che non appare all’orizzonte…».



Il ministro Gelmini, nella sua conferenza stampa del 31 agosto, ha fornito una risposta ai molti dubbi – espressi da più voci anche su questo giornale – sui numeri dei nuovi docenti e di quelli da assumere sulla base delle graduatorie a esaurimento. Qual è la sua opinione in proposito?

Mi pare che il ministro abbia sciolto i dubbi nel senso di confermare puntualmente le cifre e le scelte che hanno generato le polemiche. Quindi, mi pare che nulla sia cambiato.



Il punto di vista del ministro è riconducibile alle posizioni formulate in una ormai nota lettera al Corriere del 24 luglio: ci rifiutiamo di alimentare nei giovani false speranze, diceva, perché «lo Stato non può creare artificialmente posti di lavoro che non esistono».

La dichiarazione che «lo Stato non può creare artificialmente posti di lavoro che non esistono» è coerente con l’atteggiamento del ministro fin dalla soppressione delle SSIS viste come una fabbrica di precariato e con la scelta di fissare dei tetti per le nuove lauree magistrali per la formazione degli insegnanti e per il TFA (Tirocinio Formativo Attivo), che ovviamente dovevano essere contemperati con l’esaurimento del precariato pregresso. Noto tuttavia che in una conferenza stampa di un anno fa (2 settembre 2010) il ministro sottolineava che il problema precari era immenso, che «nessun Governo è in grado di assorbirne 200 mila: prioritario è non crearne altri», ed enfatizzava l’importanza del nuovo sistema di formazione iniziale.



Davvero?

Poi si è passato a parlare di esaurimento del precariato pregresso nell’arco di 6-7 anni. Adesso si parla di immissione di tutti nell’arco di un triennio – secondo le richieste avanzate con molta durezza dai sindacati. E l’avviso a non nutrire troppe aspettative ha cambiato destinatario: i giovani. I quali sono ormai un esercito in attesa di circa 60.000 unità, ma privo di strutture organizzative che lo difenda. È evidente che se il problema del precariato viene affrontato in questi termini, i numeri per il nuovo sistema di formazione non possono che essere esigui.

La scelta politica è stata quella di privilegiare lo svuotamento delle graduatorie a discapito dei nuovi percorsi abilitanti. Che ne pensa?

Penso che verrà assestato un colpo letale al rinnovamento generazionale e culturale della scuola italiana, in barba a tutta la retorica giovanilista che ci viene propinata da mane a sera. Mi chiedo persino a che pro spendersi tanto a costruire un nuovo sistema di formazione iniziale se alla fine la montagna partorisce un topolino. Noto soprattutto che la prospettiva di una sostanziale chiusura dell’accesso dei giovani all’insegnamento significa anche assestare un colpo letale all’università: le facoltà che formano nuovi insegnanti (soprattutto Lettere e le facoltà scientifiche) subiranno una drastica diminuzione di iscritti, con quali conseguenze per la cultura umanistica e scientifica di questo paese è facile immaginare.

Tutti coloro che hanno chiesto un ricalcolo del fabbisogno hanno sostenuto la distinzione di abilitazione e reclutamento, dicendo che questo avrebbe rotto il circolo perverso del «diritto al posto».

Questa distinzione ha ispirato il lavoro della commissione che ho presieduto. In primo luogo, perché avrebbe consentito una maggiore elasticità nei numeri: non si vede perché l’abilitazione debba costituire la garanzia di avere un posto. Questa è una tipica malattia italiana: ottenere la garanzia del posto fisso subito. Invece, prima ci si abilita alla professione docente, poi, secondo modalità di reclutamento definite a parte – concorsi, chiamata diretta, o altro, non entro ora nel merito – si viene assunti. Ma c’era un’altra ragione ancor più importante per tener ferma quella distinzione, e che spesso non viene colta. In una situazione compromessa come la nostra, si trattava di operare un taglio netto tra passato e futuro, creando un nuovo sistema di formazione per il futuro, da mettere a regime in totale indipendenza dalle eredità pregresse.

E invece?

Se si fossero mescolate le due questioni sarebbe subito iniziato un lavorìo per risolvere al livello del nuovo sistema di formazione il problema del precariato, corrompendone subito la qualità culturale e gli intenti e lasciando che il passato afferrasse il futuro per i piedi. Evidentemente, il problema del precariato esiste, ma è un problema da risolvere in termini politici. La scelta dei «numeri» è politica e non tecnica. Non sarebbe stato serio occultare e «risolvere» a un livello falsamente tecnico un problema politico, che la politica in prima persona ha il dovere di risolvere a viso aperto. Ma proprio perché abbiamo impostato il problema in termini di formazione e non di reclutamento è nato il problema dei numeri e la politica è stata costretta a scegliere.

E lo ha fatto a favore del precariato.

Proprio così. Ancora una volta la politica ha manifestato la sua debolezza di fronte a corporazioni, sindacati e tecnocrazie ministeriali, cedendo alla logica della scuola come ammortizzatore sociale. Come ha detto a Ilsussidiario.net Ernesto Galli Della Loggia, non c’è futuro per un paese che continua a pensare che la cosa più importante di tutte sia assumere decine di migliaia di precari.

Ma come mai secondo lei la politica del ministero, dopo che l’iter del Regolamento per la formazione dei docenti aveva lasciato ben sperare, ha subito questa involuzione?

No, è proprio l’iter del Regolamento che non ha lasciato ben sperare: agli inizi sembrava di poter essere ottimisti, ma poi le cose hanno preso una brutta piega. Per affrontare in modo equo la situazione occorreva prefigurare un riassorbimento del precariato (con regole meritocratiche) nell’arco di 7-10 anni e intanto avviare in modo vigoroso il nuovo sistema, culturalmente più qualificato. Dopo tre anni di pausa, un numero di circa 60.000 posti per i giovani laureati sarebbe stato del tutto ragionevole. Per contemperare le due esigenze, scontentando un po’ tutti, occorreva opporsi alle pressioni corporative e sindacali, oltre che a prassi invalse nella gestione ministeriale. Ma per questo occorreva una forza e una decisione politica che questo governo da tempo non ha più, e che peraltro nessuno dei ministri dell’Istruzione dell’ultimo ventennio (almeno) ha avuto.

Anche alla luce del ruolo che lei stesso ha svolto, esaminando tutto il problema con uno sguardo più ampio, dove sono stati commessi degli errori, in quali passaggi e da parte di chi?

Su questo punto vorrei essere chiaro una volta per tutte: l’esperienza di un professore in contesti come questo è istruttiva e un giorno conto di raccontarla in dettaglio, perché illustra bene come gli interessi corporativi in questo paese sono capaci di demolire le migliori intenzioni. Il ministro ci chiese di operare nel senso che sopra ho descritto e in tempi rapidissimi, per non lasciare vuoti dopo la soppressione delle SSIS. La commissione ha iniziato i lavori il 5 settembre 2008 e ha prodotto con inedita celerità un progetto di regolamento consegnato il 24 dicembre 2008. Va riconosciuto agli uffici legali del ministero di aver approntato la versione legislativa in tempi rapidissimi: entro la fine di gennaio 2009. Poi è iniziato il processo di consultazione di associazioni professionali e sindacati che ha prodotto una mole enorme di critiche e suggerimenti che, per lo più, hanno prodotto soltanto dilazioni perché si elidevano quasi tutte a vicenda. Non entro nel merito, ma va detto che assieme a proposte ragionevoli (come l’aumento delle ore di tirocinio) ve ne sono state altre assurde e persino giuridicamente incompatibili con l’autonomia universitaria. Ma l’aspetto più devastante è stata l’insistita richiesta di saldare nuovamente la tematica del reclutamento a quella della formazione e di introdurre una serie interminabile di modifiche sia tese a difendere gli interessi di gruppi e camarille accademiche e scolastiche formatesi attorno alle SSIS, sia a introdurre «norme transitorie» volte alla difesa degli interessi del precariato. Va dato atto al consigliere Max Bruschi di aver difeso in tutti i modi lo spirito del regolamento…

E poi cos’è accaduto?

Questo è stato possibile fino a un certo punto, come testimonia l’art. 15 del decreto, che costituisce un ammasso di norme transitorie, spesso discutibili e incoerenti e che marca in modo evidentissimo lo stravolgimento già avvenuto del progetto: basta mettere il testo iniziale e quello finale l’uno accanto all’altro. Poi c’è stato il calvario interminabile dell’esame da parte degli organi di controllo e ulteriori richieste di revisione sempre dettate da esigenze di norme transitorie. Va detto che anche il dibattito nelle commissioni parlamentari è stato tutt’altro che agevole, poiché ha privilegiato l’audizione di tutte le istanze contrarie al progetto: non un membro della commissione è stato convocato… Così siamo giunti dall’inizio del 2009 alla primavera 2011, per avere l’approvazione definitiva! Quasi due anni e mezzo… Ma il colpo definitivo e letale – che mi induce a rigettare la paternità del prodotto finale – è stato il decreto attuativo dell’aprile 2011.

Nel quale, professore?

…nel quale è stato introdotto l’obbligo di non attivare più di una laurea magistrale regionale, mettendo assieme tutte le università regionali, pubbliche e private chiamate ad individuarne una sola come sede della gestione della laurea e, come se non bastasse, si è prescritto che «di norma» anche il TFA doveva essere centralizzato nella stessa università. Questo ha costituito uno stravolgimento totale dello spirito del nostro progetto che mirava a superare il principale difetto delle SSIS (che pure in certe sedi hanno avuto pregi, ma sempre questo difetto), e cioè di essere nel totale controllo di gruppi cristallizzati e autoperpetuantesi di docenti universitari e di docenti delle scuole (nella figura di supervisori prorogati in eterno). Il nostro progetto mirava a creare un rapporto agile, elastico, decentralizzato, non burocratico tra università e istituti scolastici, con l’intento di «costringere» tutto il mondo universitario a coinvolgersi nella formazione (anziché delegarla pigramente ai soliti noti) e creare un più vasto apporto da parte delle scuole, non più ristretto ai soliti docenti distaccati a vita. L’intenzione era di dare linfa e vitalità al sistema, di produrre un continuo arricchimento culturale attraverso un’interazione ampia e non burocratica tra le due istituzioni.

Ma così non è andata: è prevalso il centralismo.

Invece ora ci troviamo di fronte a una struttura il cui centralismo accademico-burocratico fa impallidire l’autoreferenzialità delle SSIS: tutto è in mano dei comitati regionali universitari e delle unità scolastiche regionali, organismi troppo lontani dalla realtà culturale e didattica delle università e delle scuole. E il fatto curioso è che non si riesce a capire chi sia l’autore di un decreto attuativo tanto assurdo e sconcertante. Quel che è certo è che si tratta della rivincita delle corporazioni stataliste e centraliste che – tipico male di questo paese – hanno preferito una guerriglia vietnamita di tre anni, incuranti delle esigenze dei giovani laureati, pur di non perdere le loro posizioni di potere. Non a caso ora si parla addirittura di creazione di un ente analogo alla Codissis (la conferenza dei direttori delle SSIS) e c’è persino chi vaneggia di creare un ente nazionale unico per la formazione pedagogica degli insegnanti. Si tenta persino di sterilizzare le novità culturali contenute nelle tabelle delle lauree della primaria e delle medie inferiori, convocando riunioni in cui si compilano «syllabus» che i docenti sarebbero tenuti a seguire nei loro corsi. Altro che statalismo… roba sovietica…

Cosa si doveva fare per evitare il disastro che descrive?

Esprimere una volontà politica abbastanza forte da far approvare in tempi rapidissimi – sia pure accettando modifiche ragionevoli – il regolamento in versione non stravolta. Ma voglio terminare con un esempio della confusione dilagante. Giorni fa mi è stato chiesto perché mai si sono previsti nella tabella della LM95 dei crediti obbligatori di scienze naturali per i laureati triennali in matematica, e di matematica per i laureati in scienze naturali. Si lamenta che questa «rigidità» ora crei problemi a persone che in questo triennio si sono laureate al di fuori delle nuove regole. Ma la domanda è: quale gruppo di persone in stato di salute mentale potrebbe mai pensare di stilare un regolamento nella previsione che non venga applicato prima di tre anni?… E diciamo pure forse quattro o cinque, perché le circolari ministeriali che impongono (ora) termini strettissimi di attivazione di lauree e TFA non si accompagnano a nessun atto che prenda le misure necessarie per consentire tale attivazione in modo concreto. I numeri hanno ballato fino ad ora e non risulta che nessuno stia pensando a organizzare le prove di accesso.

La riforma più liberale e radicale sarebbe forse quella di gestire la questione docente improntandola all’autonomia della professione e del reclutamento. Un po’ quanto previsto dal pdl Aprea. Che ne pensa in proposito?

Vorrei essere chiaro in merito. Chi parla di approvazione del pdl Aprea nello scorcio di questa legislatura gravata da problemi gravissimi, vende favole e manifesta quel che molto probabilmente vi è dietro tutta questa strana vicenda: il desiderio di affossare del tutto la nuova normativa per la formazione iniziale, e di farlo rendendola irrilevante. Tanto varrebbe dire chiaramente: abbiamo scherzato per tre anni, buttiamo tutto alle ortiche e qualcun altro ci penserà, per l’intanto facciamo una mega sanatoria dei precari che quantomeno serve a rabbonire politicamente i sindacati, merce preziosa in questi tempi. Reclutamento diretto da parte delle scuole? Per fare una simile rivoluzione occorrerebbe valutarne tutti gli aspetti in modo serio e responsabile, e soprattutto crederci, altrimenti siamo a una vacua retorica aziendalista. Guardando a quel che è accaduto con la riforma universitaria, mi pare che in fin dei conti si finisce col muoversi in senso opposto, anche qui in piena subordinazione allo statalismo ministerial-sindacale.

Si è detto: liberalizziamo, le università assumono in piena libertà, e poi le valutiamo dai risultati.

Ma la riforma va in senso opposto, imponendo regole strette già per l’idoneità nazionale, regole pesanti che tolgono qualsiasi autonomia di valutazione alle commissioni. La neonata Anvur ha prodotto direttive per le valutazioni, improntate alla più ottusa bibliometria, non tenendo in alcun conto le osservazioni del Cun e del mondo universitario (e le critiche che ormai piovono dall’estero nei confronti di questi metodi). D’ora in poi, all’arbitrio delle commissioni si sostituirà quello di regole quantitative cieche, discutibili, e autorevolmente contestate. La valutazione diventerà roba da burocrati e passacarte, calcolatori di h-index. Poi, come se non bastasse, verrà la valutazione ex-post, anche questa con gli stessi discutibilissimi criteri. Altro che «scegliete liberamente, poi vi valuteremo». Qui trionfa la più occhiuta e opprimente burocrazia statalista, forse perché ormai è uno sport nazionale dire che l’università è la sentina di tutti i mali e quindi va commissariata in ogni suo atto. Dovremmo allora credere che la scuola sia invece totalmente esente da tutti questi mali, al punto da consegnare alla corporazione dei dirigenti scolastici la libertà totale di assumere? Andiamo… Non soltanto esistono anche qui mele marce, ma un singolo istituto scolastico è una struttura piccola e ben più indifesa di un’università.

Sta dicendo che prevarrebbero logiche familistiche e clientelari?

È facile immaginare cosa potrebbe succedere in certe zone del paese, dove la criminalità organizzata scoprirà nella compilazione delle liste di assunzione nelle scuole un altro lucroso giro di affari… Certo, si può studiare come prevenire questi rischi, ma non è cosa da prendere sottogamba cavandosela con la retorica dell’autonomia. Di certo, prima di fare una cosa del genere il minimo è mettere in piedi un serio, serissimo sistema di valutazione ex-post. Ma anche qui le cose non promettono di andar meglio che con l’università. I primi passi mossi in tale direzione, con i progetti sperimentali del ministero, sono stati caratterizzati da leggerezza e superficialità e c’è da preoccuparsi seriamente all’idea che vengano generalizzati. Si apprende che è in cantiere un altro progetto sperimentale in cui la valutazione degli istituti verrà affidata a commissioni la cui formazione sarà a cura dei dipartimenti universitari di psicologia… Al riguardo è curioso che non si senta la voce di coloro che si scagliano quotidianamente contro la «prepotenza» dell’accademia universitaria.

Le cose da fare subito?

Confesso di essere pessimista. Ci vorrebbe un’inversione totale di orientamento che non appare all’orizzonte. Ci vorrebbe soprattutto una fiducia nelle persone che valgono, la capacità di mobilitare le forze vive e davvero appassionate a insegnare, che credono nella cultura e nei valori e non si sono appiattite in una sterile metodologia da «burosauri». La vera meritocrazia è valorizzare queste forze, valorizzare la cultura e non i parametri. Questa è stata l’ispirazione iniziale di questo ministero, mentre ora prevale la subordinazione al corporativismo e alla tecnocrazia. Quando si apprende che verranno spesi – negli attuali chiari di luna – un centinaio di milioni per introdurre il wi-fi in scuole disastrate (vi sono scuole in cui quando piove dal tetto occorre staccare le LIM…); quando si apprende che la principale preoccupazione è spendere e spandere per tecnologia ed editoria digitale (addirittura corredata di videogiochi!); quando si leggono i tabulati dei ricchi compensi che prendono certi «esperti» per formulare test insulsi; quando si apprende che un dirigente ministeriale ha invitato gli insegnanti a stabilire in modo friendly i rapporti con gli studenti attraverso Facebook…  dopo quel che è successo in Inghilterra… bene, cascano le braccia. La via per ridare dignità alla funzione docente non è questa, non è almanaccare marchingegni tecnocratici, fare retorica e mandare a picco le riforme che privilegiano il merito.

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