Marco Lodoli su La Repubblica apre l’anno scolastico con la denuncia del primato che sono venuti assumendo l’emozione, il desiderio, la passione nei messaggi mass-mediatici, negli spot pubblicitari, nei commenti radio-televisivi alle competizioni sportive, nell’immaginario collettivo quotidiano… Un’esperienza non ha senso, se non porta un surplus di emozione. Lo scrittore invita a tornare, anche e soprattutto nella scuola, alla centralità della razionalità e del conoscere. Si chiede: “In che modo lo spirito del tempo ha inquinato l´idea della conoscenza, e come si potrebbe rilanciare il sogno di un mondo che studia, apprende, diventa comunità già nelle aule e nelle palestre e nei cortili della scuola?”. Di fatto, le scuole stanno cessando di funzionare come luoghi della conoscenza per trasformarsi in centri di socializzazione leggera tra pari. Gli insegnanti vengono collocati ai margini della dinamica relazionale educativa, salvo i pochissimi che riescano a svolgere un ruolo oscillante tra carisma, infotainment, guruship. Se i ragazzi si annoiano e i loro insegnanti sono frustrati – è un fatto – occorre andare in profondità lungo due ordini di cause possibili: lo “spirito del tempo” e l’attuale configurazione del sistema educativo nazionale.



Prima però occorre differenziare il discorso. Se parliamo di società, di mondo adulto, di famiglie, di mass-media, lì il metodo dell’emozione è diventato una vulgata gnoseologica, una teoria della conoscenza: l’emozione è l’organo della conoscenza. Se qualcosa non genera emozione, non è reale, non è vero. Ma nell’universo scolastico funziona una logica opposta: se il vero, se l’intelligenza del mondo deve muovere l’uomo per intero – corporeità, psiche, simboli – la scuola non è in grado di farlo muovere. Pertanto l’invito alla scuola a uscire dalla retorica dell’emozione è male indirizzato: non soltanto la maggioranza degli insegnanti non pratica – e meno male! – la gnoseologia delle emozioni, ma non è neppure in grado di suscitare quelle “giuste” di fronte alla conoscenza della realtà. Insomma, difetto simmetrico rispetto a quello del mondo “là fuori”. Così ricalibrato, il discorso di Lodoli tiene.



Quanto allo “spirito del tempo”, non c’è che da convenire con quello che lo scrittore definisce “l’abuso del desiderio”, qui inteso nell’accezione corrente, non in quella colta del Censis o in quella pregnante di Luigi Giussani. Abuso tanto più inevitabile, quanto più esso si collochi dentro un’antropologia ridotta, in cui il principio dominante è quello pavloviano meccanicistico “stimolo-risposta”. L’uomo è una macchina di desideri e passioni da eccitare permanentemente, cliccando il tasto giusto, ai quali il mercato dei consumi immateriali o materiali si impegna ad offrire immediata e precaria soddisfazione. L’arco breve del tempo è quello dell’attimo presente, per niente affatto denso, che ciascuno è allettato a consumare in modo bulimico e reiterativo.



Questa deriva spezza o allenta il filo che unisce le generazioni lungo tutte le dimensioni del tempo, nel loro incessante lavorio di costruzione della civiltà umana. Viene tradita quella che Walter Benjamin, pensatore ebreo e comunista, definiva “l’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra”, in forza della quale “noi siamo stati attesi sulla terra”. Nessuno attende più nessuno. Con ciò viene meno la relazione educativa, tutto si liquefa. Ovvio che questa onda lambisca le scuole, dove appunto i ragazzi arrivano ogni mattina, portando nello zaino quel vissuto collettivo, e che pertanto anche nella scuola si cominci, non da oggi, ad oscillare tra le tentazioni e la concorrenza dell’infotainment e l’obsoleta tradizione disciplinare ottocentesca.

E’ difficile uscire da questo tunnel ideologico a fondo cieco, se non si riconquista un’antropologia completa, attraverso una battaglia filosofica e culturale senza quartiere. “Che cosa è l’uomo?”: questa è la domanda-chiave della civiltà e perciò anche dell’educazione e perciò della didattica. Che cosa caratterizza la specie animale umana: il cuore o il cervello? l’emozione o il logos? la passione o la ragione? Domande non nuove, ma non banali, alle quali ogni epoca ha dato le proprie risposte. Se le risposte esatte fossero “il cervello”, il “logos”, la “ragione”, allora il rapporto con la realtà – e con la verità quale suo specchio gnoseologico – diverrebbe centrale nell’educazione intellettuale e morale delle giovani generazioni. E proprio perché non esiste nessuna Agenzia deputata a controllare il rapporto dell’individuo con la realtà e a somministrargli la verità – né Chiesa né Stato – per questa stessa ragione la conoscenza della realtà naturale e storica – il mondo – è l’impresa più intima, più esistenziale, più originale, più decisiva della biografia di ciascuno. E’ lì che la responsabilità personale colloquia con il destino di ciascuno.

In questa battaglia filosofica – controculturale rispetto alla deriva dominante oggi – non si potrà a priori evitare di fare i conti con la struttura ontologica della finitudine/infinitudine, che da Eraclito in avanti caratterizza la definizione dell’uomo. Cose da filosofi? No, da adulti e da insegnanti, innanzitutto! Perché non sono i ragazzi ad essere infedeli al principio aristotelico “tutti gli uomini per natura desiderano sapere”, ma sono gli adulti, a quanto pare. Se essi lo ignorano o comunque non lo praticano nella loro vita e nella loro professione, hanno poco da lamentarsi dei “nuovi barbari digitali”. E tuttavia l’antropologia filosofica non basta. 

E qui scivoliamo dal mondo “là fuori” dentro l’universo scolastico-didattico. Intanto occorre anche un’altra antropologia: quella fornita dalle scienze neuro-biologiche, dalla psicologia dell’età evolutiva, dalla sociologia delle generazioni ecc…. Per quanto i messaggi che arrivano di lì siano frammentari, spesso circoscritti in limiti culturali angusti, quanto più si pretendono filosoficamente esaustivi, emergono, non da oggi, spunti decisivi di conoscenza dell’uomo concreto che gli insegnanti e gli adulti si trovano di fronte: che non esiste il ragazzo medio, ma il singolo, con il suo tipo di intelligenza, la sua biografia e la sua storia, i suoi tempi di sviluppo con i suoi andirivieni, balzi in avanti e regressioni; che sono decisivi ai fini del rapporto con la realtà/verità i primi dieci anni di vita; che l’adolescenza – età creata artificialmente dalle politiche economico-sociali dell’Ottocento- sta perdendo i confini e forse sparendo.

Non si può davvero dire quale, in un istituto scolastico, sia il posto che raccolga, condensi e sintetizzi i frammenti di conoscenza che gli adulti, gli insegnanti, i compagni raccolgono del singolo ragazzo. Una delle cause del fallimento educativo è che la scuola-istituzione non conosce il singolo ragazzo, e ciò quanto più egli sale lungo i gradini degli anni. Perciò i ragazzi sono e si sentono soli al cospetto di un’istituzione-matrigna. Stanno bene solo con i propri pari. La scuola parla ad un ragazzo che non c’è.

Ma la questione di fondo è quella dell’assetto istituzionale, amministrativo, organizzativo, culturale, curricolare del sapere, dell’organizzazione del lavoro docente, dei tempi scolastici. Questo assetto scoraggia l’accesso all’intelligenza del mondo, annoia gli insegnanti, aliena i ragazzi che stanno loro di fronte. Ai ragazzi che arrivano “da fuori” sull’onda della retorica emozionale, fatua, ma onnipervasiva, la scuola non sa dare le “buone emozioni”, quelle che provengono dall’incontro con la realtà storica e presente del mondo. Il sapere a coriandolo, spezzettato, liofilizzato, inodore, incolore, insapore non attira e non incontra il naturale desiderio di conoscere. Allontana dalla realtà, è un fantasma che genera anaffettività intellettuale. E forse l’evasione nelle emozioni deboli è anche dovuta all’incapacità di produrre le emozioni forti che solo l’incontro con la realtà/verità può fornire.

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