Già non è facile ridimensionare le spese in una situazione “normale”, per farne scaturire un risparmio senza causare troppi danni. Figurarsi se si deve intervenire sulla scuola, che costituisce sempre una situazione eccezionale. Le eccezioni, però, non possono essere infinite. Per questo le regole del “dimensionamento ottimale”, dettate fin dal 1998 (Dpr 233), prevedevano un certo numero di eccezioni e deroghe. Che purtroppo, però, sono divenute regola diffusa.
Poi si è incrementata la necessità di nuovi risparmi di denaro pubblico, e con l’ultima “manovra estiva” (Legge 111/2011, art.19, comma 4) si è intervenuti un po’ pesantemente, prevedendo la fusione di tutte le direzioni didattiche e le scuole medie, se rimaste ancora in vita autonomamente, in nuovi istituti comprensivi di almeno 1.000 alunni (senza limite superiore, quindi anche di più). Nel tempo, infatti, si erano già formati altri istituti comprensivi in base ai parametri del Dpr 233/1998 (con minimo 500, massimo 900 alunni), e così si poteva prospettare una situazione paradossale: creare “nuovi comprensivi” di 1.400 alunni vicino a “vecchi comprensivi” di 600. Ci voleva un criterio applicativo, elastico e ragionevole allo stesso tempo, in mancanza del quale le Regioni avrebbero avuto gioco facile nel tentare di rinviare gli interventi (magari con la speranza di vanificarli a suon di ricorsi al Tar, com’è puntualmente successo), o nella migliore delle ipotesi di intervenire per lenire i possibili effetti negativi della manovra, come fatto dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome il 27 ottobre 2011, proponendo diverse opzioni (non del tutto dilatorie, ma piuttosto sensate), in risposta alla nota del Miur n. 8220 del 7/10/2011.
Va osservato che oggi si è di fronte ad un problema maggiore che nel 1998, perché nei 12 anni di vigenza del Dpr 233 non tutti coloro che dovevano intervenire lo hanno fatto, e non tutti allo stesso modo. È evidente la sperequazione che si è determinata: ci sono regioni in cui ci sono scuole decisamente sovradimensionate (più a Nord che a Sud, a dire il vero) ed altre dove il sottodimensionamento è quasi regola, a volte con ragioni da vendere, altre volte per ragioni molto opinabili, e qualche volta anche per ragioni un po’ clientelari.
Oggi i nodi vengono al pettine, e i sacrifici maggiori sono chiesti alle Regioni nelle quali in passato gli interventi di dimensionamento non sono stati fatti, o sono stati meno del necessario. Questo, però, è un punto che deve rimanere fermo, per evidenti ragioni di equità.
Ma il mondo è bello perché è vario, e ci sono delle Regioni i cui amministratori, pur avendo già fatto a tempo debito ciò che dovevano, oggi hanno “voglia” di fare di più, intervenendo anche là dove non sarebbe necessario. Questo è un pericolo da evitare, per non finire col creare scuole esageratamente grandi ed articolate in troppe sedi, con la conseguenza (quasi inevitabile) di diventare ingestibili. E non è solo questione di numero totale degli alunni: chiunque abbia diretto una scuola sa che è molto più facile lavorare bene (come si deve) in una scuola di 1.000 alunni concentrati in due plessi, piuttosto che in un’istituzione scolastica di 700 alunni distribuiti in tre o quattro plessi, magari distanti tra loro.
È per questo che è giusto invocare un limite non solo numerico, ma anche di complessità generale – limite del quale, però, molti amministratori locali (i primi decisori in materia di dimensionamento scolastico) non riescono a capire bene l’importanza. Del resto, per capire che il problema non è di facile soluzione basta questo semplice dato: i comuni italiani sono 8.101 e quelli sopra i 60.000 abitanti sono 104. Ciò significa che il lavoro da fare non deve limitarsi ad applicare la nuova legge (111/2011) lasciando stare tutto quello che era stato fatto prima (applicando o non applicando il DPR 233/1998): occorre dare una sistematina a tutta la rete scolastica, cominciando subito dalle scuole evidentemente troppo sotto il livello normale (e ce ne sono ancora un sacco di solo 200/250 alunni…).
In questo panorama, la Direzione generale per il personale scolastico del Miur è intervenuta, molto opportunamente, con una Nota (prot. 10309 del 13 dicembre 2011). Da una parte sollecita l’intervento (spostando la scadenza dal 31 dicembre 2011 al 31 gennaio 2012), dall’altra sembra proprio che inviti ad evitare gli “eccessi di zelo”. Fa piacere notare che diverse considerazioni della Nota ministeriale, ispirate ad un sano realismo ed a quanto contenuto nel documento della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, si trovavano già nel documento che l’Associazione DiSAL aveva tempestivamente inviato il 2 agosto 2011 al ministro Gelmini per sollecitare un’applicazione della L.111 ferma, sì, ma intelligente.
Sono molto interessanti questi due passaggi (che, tra l’altro, ricalcano quanto proposto a suo tempo su queste pagine giovedì 3 novembre 2011): “Questa Direzione Generale ritiene che, le finalità di cui all’art. 19, comma 4 … si raggiungono anche considerando il valore limite di 1.000 alunni (e quello limite 600 per i casi specificamente previsti) anche se tale valore viene assunto come media regionale di riferimento; conseguentemente, laddove l’organizzazione razionale della rete lo richieda, evidentemente per casi che non possono essere che sporadici, nel piano di dimensionamento potranno figurare istituti comprensivi con valori inferiori a quelli previsti dalla legge sopra richiamata, purché nell’ambito regionale vi siano istituzioni scolastiche che presentino valori che compensino adeguatamente i predetti valori inferiori salvaguardando la media di riferimento”. E poi: “… in fase di prima attuazione della norma in argomento sulla costituzione degli istituti comprensivi si potrà tener conto, con un criterio di gradualità, di particolari esigenze geografiche, socioeconomiche e legate alla ‘storia del territorio’, purché vengano comunque rispettati i parametri numerici previsti dalla legge n.111/2011 intesi come media regionale di riferimento”.
E’ pur vero che la nota citata non prende minimamente in considerazione la possibilità che continuino ad esistere le “vecchie” direzioni didattiche e le “vecchie” scuole medie, come richiesto da molte parti. Su tale aspetto, probabilmente, molti resteranno delusi, soprattutto chi si era prontamente schierato a difendere ad oltranza le “gloriose” direzioni didattiche e le (forse non sempre gloriose) scuole medie. Ma questo è un argomento che si può ritenere, onestamente, di secondaria importanza. Non tanto perché si voglia disconoscere la bontà delle direzioni didattiche o delle scuole medie in quanto tali, ma perché l’argomento è intrinsecamente debole. Chi può ragionevolmente sostenere, infatti, che la “verticalizzazione forzata” sia un danno per le scuole coinvolte?
Infatti questo tipo di verticalizzazione è ben diverso da quello che adombrava la riforma del 2000, quella voluta dall’allora ministro Berlinguer, giustamente osteggiata perché faceva letteralmente “sparire” la scuola media, inglobandola di fatto (compresi molti docenti) nell’elementare. No: la verticalizzazione oggi proposta è più (giustamente) rispettosa del triennio della scuola della pre-adolescenza, perché non la ingloba nel ciclo precedente, ma semplicemente la aggrega ad esso dal punto di vista gestionale ed organizzativo, salvaguardandone comunque la specificità e la dotazione organica. Può non essere un bene assoluto, ma non è certo un male assoluto. Quindi, ci sta.
Insomma: oggi sembra proprio che si voglia chiedere ai decisori di non essere troppo zelanti (come era sembrato al tempo della promulgazione della Legge 111/2011), ma seriamente realisti di fronte al problema (vero) della necessità di contenere la spesa pubblica per l’istruzione, pur senza abbassarne forzosamente la qualità possibile.
Sarà la volta buona perché si intervenga in modo tanto graduale quanto deciso, secondo il criterio della vera equità?