La partita è di quelle che non si possono perdere. Perché in gioco non c’è soltanto il raggiungimento degli obiettivi specifici, ma la possibilità di dimostrare che l’intero sistema scolastico è ancora governabile e che esistono ancora possibilità reali di intervento per chi abbia davvero il coraggio di tentarle.



Dopo molti (troppi) anni di sospensione di qualunque procedura concorsuale, il 2012 potrebbe infatti essere l’anno della svolta: se non insorgeranno ostacoli di tipo tecnico-organizzativo, o nuove incursioni da parte di qualche magistratura, potrebbero andare in porto il concorso a 150 posti di dirigente tecnico (ispettore) e quello a 2.386 posti di dirigente scolastico, mentre il ministro Profumo ha annunciato l’intenzione di bandire entro la fine del 2012 – a distanza di 13 anni dall’ultimo, varato nel 1999 – il concorso a (12mila?) posti di insegnante ai vari livelli di scuola.



Si tratta di una buona notizia per chi da anni sostiene la necessità di riattivare serie procedure di tipo concorsuale, previste peraltro dalla Costituzione, per consentire una migliore selezione del personale insegnante e per dare ai giovani neoabilitati una chance per entrare nel mondo della scuola, senza passare per la via crucis delle supplenze e delle graduatorie. Solo riattivando regolari procedure concorsuali a cadenza ravvicinata (uno o due anni), fra l’altro, si può sperare che la scelta dell’insegnamento possa tornare ad attirare l’interesse dei giovani che si iscrivono all’università, recuperando competitività rispetto ad altri percorsi di studio che assicurano una transizione all’occupazione più rapida di quella che si è verificata nel settore della scuola negli ultimi 20-30 anni.



La normativa vigente, ancorché colpevolmente disapplicata da oltre dieci anni, prevede che il 50 per cento dei posti sia riservato ai vincitori di concorso e il restante 50 per cento agli abilitati inseriti nelle graduatorie a esaurimento (ex permanenti). Il ministro ha accennato tuttavia alla possibilità di una diversa ripartizione, che tenga conto dell’elevato numero di iscritti alle GAE.  Una idea che ha fatto subito discutere. In primo luogo perché ignora una norma vigente, in secondo luogo perché riflette una tendenza politicista al compromesso, dalla quale si sperava che un governo tecnico fosse immune, e infine perché potrebbe demotivare gli abilitati delle GAE dal partecipare al concorso, spingendoli invece a premere per aumentare la quota delle immissioni in ruolo riservate alle graduatorie e perché il concorso magari non si faccia affatto.

Profumo ha parlato esplicitamente di “due canali, uno più grande che attinge alle graduatorie, un altro più piccolo che fa riferimento ai nuovi concorsi”. Il rischio connesso a questa impostazione è quello di scontentare tutti: i precari delle Gae che vorrebbero il 100 per 100, gli abilitati non inseriti nella Gae che vorrebbero entrarci e soprattutto i giovani laureati non abilitati, già in ansia per la ritardata partenza dei TFA, che vedrebbero ridursi il numero di posti di ruolo in palio (e sempre ammesso che i corsi per i TFA si concludano in tempo utile per consentire agli interessati di partecipare al concorso).

Altre incognite gravano sui futuri concorsi, la cui necessità e urgenza non può far dimenticare la rilevanza di una serie di problemi che possono condizionare pesantemente il successo dell’operazione, a partire dalla questione di chi potrà parteciparvi: solo i già abilitati o anche i neoabilitati dei TFA (o abilitandi, se ammessi alle prove con riserva)? Oppure, soprattutto con l’obiettivo di guadagnare tempo, tutti i laureati, vincolando i vincitori a frequentare (con successo) il TFA nel primo anno scolastico successivo alla pubblicazione della graduatoria? In tal caso servirebbero prove di preselezione, dato il prevedibile elevato numero di candidati? Chi le gestirebbe, e a che livello (nazionale, regionale, altro)? I concorsi sarebbero banditi per tutte le graduatorie, o si partirebbe con quelli dove le Gae sono già esaurite o in via di esaurimento? In questo caso, supponendo una dimensione regionale o provinciale (o di reti di scuole), chi sarebbe ammesso a parteciparvi?

Altre questioni aperte riguardano le Commissioni esaminatrici, dai criteri di scelta degli esaminatori alla definizione di un set nazionale di regole alle quali i commissari dovrebbero attenersi, alla loro (auspicabile) formazione all’esercizio di questa delicata funzione. E infine, dato che comunque il numero dei vincitori dei concorsi e quello degli immessi in ruolo provenienti dalle Gae sarebbero certi – in quanto corrisponderebbero al fabbisogno globale delle scuole – con quale criterio i singoli insegnanti sarebbero assegnati alle singole scuole? Con quello tradizionale che vede gli insegnanti scegliere e le scuole recepire passivamente tali scelte, o con quello, assai più coerente con il principio dell’autonomia responsabile delle scuole, che cerca un punto di incontro tra domanda e offerta, ferma restando la copertura finale di tutti i posti disponibili?

Questo non significa, naturalmente, sottovalutare le tante e giustificate critiche che da varie parti si muovono alle tradizionali procedure concorsuali, e che sono riemerse anche in occasione delle prove scritte dei due concorsi in atto: il carattere generico dei temi assegnati, l’eccessiva durata delle prove scritte che favorisce un approccio espositivo enciclopedico-narrativo, l’assenza di criteri valutativi oggettivi e condivisi all’interno e tra le diverse commissioni tali da ridurre al minimo la discrezionalità nell’assegnazione dei voti, la mancanza di un percorso di formazione e selezione dei membri delle commissioni.

Per molte di queste critiche, che possono apparire fondate, il timore è che il ministro e il Ministero solo in modesta misura siano in grado di accoglierle e di porvi rimedio a breve termine, cioè con una ricaduta effettiva sui concorsi in atto e su quello annunciato. A questo punto però se l’alternativa è tra fare i concorsi nelle condizioni date (il che non significa che non si possa immaginare qualcosa per migliorarle) oppure non farli – in particolare il concorso a cattedre – la preferenza è nettamente in favore della prima opzione: la validità delle relative graduatorie dovrebbe essere non superiore a tre anni, trascorsi i quali decadrebbero inderogabilmente. Si potrebbe utilizzare il triennio per riorganizzare il sistema di formazione iniziale e reclutamento.

Bisogna insomma sgomberare il campo da dubbi e chiarire le idee. Non è il blocco del concorso la soluzione. Serve consapevolezza a tutti i livelli e in tutte le sedi di cosa significhi premiare chi risulta maggiormente competitivo per la crescita qualitativa del sistema scuola. Serve un salto di qualità, serve un recupero della generale capacità di governo della gestione amministrativa del sistema scuola, bisogna cambiare rotta su alcune questioni. Servono mattoni e pietre, non solo belle parole. Per ridare energia al sistema scolastico c’è bisogno di un progetto politico che sappia conciliare l’obiettivo della qualificazione della spesa, con l’esigenza di fare accedere all’insegnamento i soggetti più motivati e qualificati, di stabilizzare il personale docente, di realizzare un cambiamento di funzioni dell’amministrazione e dei comportamenti dei dirigenti.

Leggi anche

SCUOLA/ Ben venga lo "svarione" delle 36 ore (se serve a cambiare tutto)SCUOLA/ Se il nuovo piano di Renzi dimentica le riforme a costo zeroSCUOLA/ I quattro pilastri che aspettano le riforme di Renzi