Luigi Berlinguer, parlamentare europeo ed ex ministro dell’Istruzione, interviene a commento dell’articolo di Giorgio Vittadini pubblicato su Ilsussidiario.net. «Sono molti i punti che mi trovano d’accordo con lui: Un giovane non è una lavagna, ma una miniera. Ed è per questo che rifiuto nettamente la scuola come viene fatta oggi in Italia».



Onorevole Berlinguer, nella sua conferenza Vittadini ha citato due errori nell’educazione, e uno di questi la chiama in causa. Al di là della citazione, lei è stato spesso accusato di favorire un approccio funzionalistico.

L’approccio funzionalistico è l’esatto opposto di quello che io ho sempre sostenuto. Vittadini dice che la mia riforma sarebbe stata influenzata da Eco. Ma dove ha avuto queste informazioni? Di ermeneuti del mio pensiero ce ne sono tanti, questo mi lusinga, ma non è questo il punto. Ragioniamo. Dico subito che ci sono molti punti illustrati da Vittadini che mi trovano d’accordo con lui. Ho sempre tentato di elaborare una visione dinamica dell’azione educativa, fissando però dei punti fermi. E uno di questi è il primato della persona. Essa implica che l’educazione ha una pluralità di valenze che va rispettata e che non si può arbitrariamente ridurre…



Come dev’essere per lei la scuola?

La scuola è una comunità educante, non una propaggine istituzionale. Penso però ad una scuola aperta non solo ai soggetti tradizionali. L’apprendimento deve essere formale ma anche non formale ed informale. Una scuola aperta al mondo. Ognuno ha il suo ruolo decisivo, quello docente non è il solo. L’impianto educativo deve avere al centro l’apprendimento: lo studio è una conquista e l’alunno ne è il protagonista. Ma senza una funzione vera dei genitori, come educatori, come partecipi della comunità non vi è scuola vera. E poi il mondo, con tutta la ricchezza della sua intrinseca offerta formativa.



Cosa vuol dire per lei «primato della persona», professore?

Sono per tradizione e convinzione affezionato all’idea che l’educazione della persona non solo «serve» la civiltà, ha nella persona stessa il suo fine. E già questo è la negazione del funzionalismo! Per realizzare tutto ciò, occorre che nell’apprendimento colui che impara abbia un bagaglio culturale maggiore di quello che è strettamente considerato necessario. ci dev’essere un «di più». Ci dev’essere, nel piatto, un fiore, che «contamini», arricchendolo, l’intero piatto. occorre costantemente espandere il proprio livello di sapere e di competenza insieme: è una tensione continua, mai sopita. Ma nel sapere c’è anche una ragione pratica e guai a dimenticarla.

Parla del lavoro?

Certo. I ragazzi vanno a scuola e tentano di avere un diploma anche perché vogliono lavorare. Non disprezziamo, per favore, il bisogno sociale oltre che economico della persona. Questo aspetto se vogliamo chiamiamolo funzionale, ma c’è e guai a dimenticarlo. Ma in tutto questo c’è anche un’idea più profonda che non ho mai smesso di difendere: la tesi della contaminazione sociale del sapere. La conoscenza, per arricchirsi costantemente, deve fare i conti col reale. Quando questo avviene, l’educazione «arma» chi è dentro un processo di apprendimento preparandolo per fare i conti con la vita.

Ma di cosa è fatto il «fiore» che sta al centro del piatto?

È un qualunque «fiore», che può essere fatto di poesia, di arte, di curiosità intellettuali, di ricerche persino ingegneristiche. Ma è qualcosa che non è direttamente funzionale all’indirizzo che la persona ha preso.

Non devono necessariamente essere, insomma, le discipline umanistiche.

Nel senso tecnico del termine, esse sono tradizionalmente le lettere contrapposte alle scienze. Ma queste partizioni non mi piacciono. Cosa c’è di più umanistico dell’approfondimento teorico di un biologo, che deve scoprire la vita? Cosa c’è di più squisitamente umanistico della matematica, altissima forma di astrazione? Sento a me più vicino l’umanesimo di Leonardo, che si definiva «omo sanza lettere» (latine e greche, ndr).

Cosa deve fare un bravo professore?

Qui viene un aspetto fondamentale della concezione che io sposo, e che trovo contenuta in forma indiretta nella conferenza di Vittadini: la necessità – semplificando – di incentrare il sistema educativo sull’apprendimento. Educare non è impartire una somma di nozioni – che ci vogliono! –, perché se si limita a questo torniamo alla scuola italiana che sta in prevalenza sotto i nostri occhi e che io rifiuto nettamente. Un giovane non è una lavagna, ma una miniera. Insegnare non è riempire un secchio, ma accendere un fuoco, e il combustibile non se lo produce il ragazzo o la ragazza; lo deve accendere il docente. È questo il suo compito.

«Invece di partire dall’analisi – dice Vittadini – che è il modo con cui tante volte si insegna anche in università, bisogna partire dallo scopo, allearsi col fatto che la curiosità ha voglia di trasformarsi in sapere compiuto».

Sono d’accordo con lui su questo e su altre cose. Io sono perché si proceda per problemi, e non per trasmissione di pacchetti epistemologici costruiti per definire una disciplina. Questo nulla toglie a che un giovane si arricchisca di conoscenze e di nozioni anche nell’ottica della risposta a problemi intrinseci ad una materia. Ma Vittadini dice un’altra cosa importantissima, che sottoscrivo: che la scuola deve attrarre il desiderio. Se non ricordo male, è un concetto che ho sentito più volte nelle parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. L’apprendimento è desiderio, perché l’essere umano nasce con la brama di capire. Il sapere serve a capire; altrimenti, la scuola premierebbe l’astuzia.

Perché la scuola non incontra l’interesse dei giovani?

Il conoscere è libertà, ma deve incontrare godimento. I ragazzi sono svogliati perché questo tipo di scuola non li fa godere più. Sia chiaro, non sto predicando la fine della fatica, tutt’altro. Essa non può mancare: lei conosce qualcosa che le piace e che non le costi? Guai a cose che non costano fatica. Ma nell’apprendimento c’è qualcosa, che Vittadini chiama «desiderio» e che io chiamo eros secondo l’etimo greco: dedicare se stesso all’oggetto nelle proprie pulsioni più forti della vita. Questo non c’è più! La scuola dovrebbe suscitare questa passione, invece quella che abbiamo noi è il contrario, è nient’altro che una serie di precetti e di nozioni.

Anche lei trova che la mancanza di autonomia della scuola italiana mortifichi la professionalità insegnante?

In un recente articolo Vincenzo Silvano ha detto una cosa giusta: la liberalizzazione in materia scolastica è l’autonomia, non la privatizzazione. Io a suo tempo le diedi le gambe per camminare, ma l’ostilità di una parte del corpo docente, insieme a quella del corpo burocratico del ministero, senza dimenticare l’ostilità della classe politica – che naturalmente la difendeva a parole – l’ha resa asfittica. Le dichiarazioni del ministro Profumo mi sembrano però incoraggianti.

Autonomia non dovrebbe voler dire anche libertà per le scuole di assumere i docenti?

In alcuni paesi evoluti già lo si fa, ma io sarei molto cauto, perché conoscendo il mio Paese vedo un grave rischio: che nel nostro sud, ma non solo, assisteremmo ad una pesante caduta di qualità dovuta al pervadente nepotismo. Quell’autonomia morirebbe di clientelismo. Nondimeno occorre cambiare, ma bisogna farlo nel tempo, procedendo a piccoli passi.

Quali sono le cose più urgenti per far funzionare l’autonomia?

Penso innanzitutto all’organico funzionale. Profumo del resto ne ha parlato. Senza un uso intelligente di questo «surplus» di dotazione organica, l’autonomia non funziona. Occorrerebbe invece andare nella direzione di moltiplicare le opzioni: in Finlandia nella secondaria superiore ci sono 72 pacchetti, affidati in parte alla scelta dei docenti in parte a quella degli stessi studenti. Il presupposto è quello di poter impiegare un organico a questo scopo. Aggiungerei infine la possibilità, per una scuola, di «ficcare il naso» nelle graduatorie, ispirandosi al proprio indirizzo educativo. Questo sia per le scuole statali che per quelle paritarie. Si potrebbe – anzi – ipotizzare un primo passo nel reclutamento da parte delle scuole proprio cominciando dalla docenza funzionale.

Se le scuole potessero scegliersi i docenti, il sistema sarebbe più competitivo e la qualità dell’offerta aumenterebbe.

Per cambiare la scuola occorre il concorso di tutte le istituzioni scolastiche del Paese. «Competizione» è una parola che mi fa paura: preferirei parlare di emulazione tra chi fa meglio l’attività educativa. Fra reti di scuole, per esempio. Sono importanti perché un istituto, da solo, non riuscirà in futuro a fare alcunché di grande. E non capisco perché quando si parla di reti di scuole, si dia per scontato che esse debbano essere solo statali o solo paritarie. No, le reti devono essere innanzitutto funzionali al progetto educativo e al territorio.

Del Tirocinio formativo attivo (Tfa) non si conoscono ancora le sorti definitive, anche se i decreti ci sono e sono firmati. Non negherà che il ruolo dei sindacati è stato, diciamo così, «determinante».

Perché difendono i precari? È vero. Ma se non lo facessero, sarebbe ugualmente grave. Confido nella volontà, ampiamente resa pubblica in numerose dichiarazioni, del ministro Profumo di fare un concorso riservandone l’accesso in parte agli iscritti nelle graduatorie, in parte ai nuovi abilitati. Quella del Tfa è una battaglia de Ilsussidiario.net alla quale ho partecipato anch’io a suo tempo. Ma non è solo questo. Non voglio credere che i sindacati – almeno alcuni di essi, quelli meno corporativi – volessero realmente dire di no ai giovani. Non è questo il tempo delle divisioni, ma del confronto.