Un’impresa deve stare al passo coi tempi se vuole continuare a resistere alla concorrenza e a fare profitti. Tanto più, in un mercato globale dove, a livello sistemico, lo sviluppo di un Paese non può prescindere dall’innovazione in tutti i campi. E, quindi, dalla ricerca. Che, per lo più, si fa in ambito universitario. Ecco perché Confindustria, per bocca di Diana Bracco, componente del Consiglio direttivo, lancia la proposta del ricercatore industriale: «potrebbe diventare – ha spiegato – una figura parallela a quella accademica, creando sinergie e interscambi che sono la base di un sistema condiviso di valutazione e crescita professionale». Secondo Bracco le due figure potrebbero essere messe in relazione, in modo da aprire «nuovi percorsi di carriera e rivitalizzando la relazione tra università e impresa e andando oltre lo stereotipo della precarietà». Adriano De Maio, professore di Economia e gestione dell’innovazione nell’Università Luiss Guido Carli ed ex rettore della medesima, non è per nulla convinto dell’idea e, raggiunto da ilSussidiario.net, spiega: «Se un’industria intende dotarsi di un ricercatore può sempre farlo. Non c’è bisogno, tuttavia, di nuove figure connotate da quella logica tipicamente burocratica-amministrativa volta a conferire nuovi titoli. Che si comincino ad assumere e pagare i ricercatori già presenti, invece di crearne di nuovi». Oltretutto, secondo De Maio, «in molte università, i raccordi tra mondo accademico e mondo dell’industria e dal lavoro sono già attivi e funzionanti».
Eppure, in moltissime università, mancano addirittura sistemi informativi decenti in grado di mettere in rete studenti e imprese. «Si tratta di operazioni da effettuare nell’ambito dell’autonomia. Perché tutte le università costituiscano collegamenti seri ed efficaci con il mondo delle imprese, è necessario che tali collegamenti rappresentino uno dei criteri della valutazione e che siano tra quelli che, rispetto al giudizio finale, pesano di più». Secondo De Maio, la chiave di volta di una tale valutazione consiste in un meccanismo premiale-punitivo: «Andrebbero premiati, in termini di risorse pubbliche, quegli atenei che spingono, promuovono, e sponsorizzano questo genere di accordi. E penalizzati fortemente, invece, quelli che su questo fronte non si dimostrano dinamici». In ogni caso, gran parte della valutazione andrebbe effettuata registrando le dinamiche del mercato: «Dovrebbe essere legata all’appetibilità dei laureati sul mercato del lavoro».
Cosa dovrebbero fare, concretamente, gli atenei? «E’ come il matrimonio: si deve essere in due. Le aziende devono capire che è conveniente avere rapporti con l’università, mentre l’università deve far capire alle imprese l’utilità di un tale rapporto. Due culture devono incontrarsi». Per il professore, il ragionamento non va limitato all’industria classicamente intesa. «Può valere anche per le facoltà umanistiche. Ci sono dei mercati fiorenti, in termini di comunicazione per le imprese, da esempio. L’industria, del resto, oltre che metalmeccanica può essere quella della salvaguardia e della valorizzazione del nostro patrimonio storico-artistico-culturale».