Nella maggior parte dei licei classici e scientifici del Belpaese il contributo complessivo, spesso ‘volontario’, versato ad inizio anno dalle famiglie supera abbondantemente quanto le stesse scuole ricevono dallo Stato e dagli enti pubblici e locali. Arrivando, in alcuni casi, a superare anche l’80 per cento dell’intero budget necessario per ampliare l’offerta formativa” (“Scuola pubblica, ma pagano anche le famiglie. Fino all’80% delle spese a carico dei genitori”, Repubblica, 18 gennaio 2012).



Di cosa sta parlando il noto quotidiano del gruppo “L’ Espresso”? Il lettore “medio”, quello cioè che non ha elevate competenze sulla complessa e talvolta contraddittoria normativa scolastica, potrebbe intendere che la scuola statale è ormai così “alla frutta” che sta in piedi solo grazie alle libere contribuzioni delle famiglie, ormai superiori a quanto lo Stato spende per l’istruzione nel nostro Paese. Difficile, per un “profano”, capire che quando si parla di ampliamento dell’offerta formativa ci si riferisce solo ad alcune voci di spesa particolari e tutto sommato marginali rispetto al costo complessivo di una scuola, caratterizzato in massima parte dagli oneri per il personale. Viene il sospetto che in realtà sia proprio questa l’idea che si vuol far passare; insomma, che ci si trovi di fronte a un “nuovo” capitolo della guerra contro il tradizionale nemico politico e la sua strategia di tagli alla scuola, definita sprezzantemente “scure gelminiana”.



Certamente, in questi ultimi anni abbiamo assistito ad una progressiva contrazione delle risorse pubbliche a tutti i livelli, e la scuola non fa eccezione. E’ anche vero che le risorse per l’ampliamento dell’offerta formativa (legate alla L. 440/97) sono diminuite sensibilmente in quest’ultimo decennio (dai 269,2 milioni di euro del 2001 agli 87.872.477,00 dell’E.F. 2011, con un taglio del 70%), e che effettivamente le scuole si trovano in difficoltà nella gestione dei servizi e nella realizzazione delle attività aggiuntive. Occorre però precisare che il nostro Paese spende ancora oggi per l’Istruzione statale ingenti risorse (oltre 50 miliardi di euro!) e che il calo si è registrato soprattutto in rapporto al totale della spesa pubblica (vd. tabella del Miur, “La scuola in cifre”, 2011). 



Il problema, dunque, non sta tanto nel “quanto” ma nel “come”. Infatti, la spesa statale fino alla secondaria superiore si attesta al di sopra della media Ocse, ed è dunque evidente che occorre soprattutto “spendere meglio in funzione della qualità che, come mostrano alcuni studi internazionali, si raggiunge favorendo autonomia delle scuole pubbliche, pluralismo scolastico, libertà di scelta delle famiglie, rilancio della formazione professionale, rilancio della professionalità insegnante…” (Giorgio Vittadini, la Repubblica, 16 gennaio 2012).

La battaglia perché le famiglie non debbano accollarsi gli oneri per contribuire ai costi di funzionamento degli istituti (“carta igienica, materiale di cancelleria, toner e carta per le fotocopie e perfino i detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici”) o per la realizzazione delle attività aggiuntive (“corsi pomeridiani e attività sportive, giornalini d’istituto e recite teatrali, gite e viaggi d’istruzione, corsi di lingua straniera e per conseguire la patente informatica, rivolti a prof e studenti, corsi per ottenere il patentino per i ciclomotori, assicurazione”), può dunque essere compresa e valorizzata nell’ambito di un serio e approfondito ripensamento sull’utilizzo delle ingenti risorse di cui sopra.

Ma se il fatto di dover pagare una tantum un modesto contributo per i servizi aggiuntivi (che tuttavia esprime una attenzione ancora viva al problema dell’educazione/istruzione delle giovani generazioni, fino all’accettazione del sacrificio economico) è percepito come un’ingiustizia, cosa dire allora di quanto accade a chi sceglie la scuola non statale? Le famiglie che iscrivono i figli alle scuole paritarie (cioè facenti parte a pieno titolo del sistema nazionale di istruzione), infatti, devono sostenere mensilmente la retta (spesso con grandi sacrifici) pur pagando già i servizi di istruzione attraverso le salatissime tasse italiane, e per avere ciò che i genitori delle scuole statali ricevono gratuitamente. E non è forse un’ingiustizia che le scuole paritarie, nonostante siano tali, ricevano solo l’1% delle risorse destinate alle statali, pur accogliendo oltre il 10% degli studenti italiani ed erogando con magri bilanci un servizio di qualità?

Non si vogliono alimentare contrapposizioni inutili o addirittura dannose, anzi. E’ giunto invece il momento di riconsiderare l’assetto complessivo del nostro sistema di istruzione in direzione di una marcata autonomia gestionale, didattica, organizzativa e finanziaria di tutte le istituzioni scolastiche, per recuperare le risorse necessarie a far funzionare meglio tutto il sistema e ogni singola realtà. Autonomia delle scuole pubbliche, pluralismo scolastico, libertà di scelta delle famiglie, rilancio della formazione professionale, rilancio della professionalità insegnante, sono davvero la soluzione del problema posto da Repubblica. Anche se forse non aveva intenzione di arrivare a tanto…

Il nuovo ministro, facendo parte di un governo tecnico e dunque essendo meno esposto alle pressioni del consenso elettorale, è nelle condizioni favorevoli per muoversi in questa direzione, anche se gli ostacoli da superare sono davvero tanti. Si tratta di una sfida importante, di grande complessità sia tecnica che politica, che porterebbe però grandi risultati, poiché se vogliamo uscire dalla crisi – che è antropologica prima ancora che finanziaria – occorre investire con decisione sulle risorse umane, in primis sull’educazione.
Ne avrebbero un sicuro beneficio non solo le famiglie giustamente difese nell’articolo, ma ogni famiglia con figli in età scolare e tutto il nostro amato Belpaese.

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