Poco più di un mese e il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo ha sparigliato le carte che stavano ordinate sul tavolo del Miur. La sua proposta del concorso ha avuto reazioni contrastanti e sulle prime non si è saputo bene come prenderla. Sono diversi però, oltre all’idea di un maxi concorso che si attende di capire come potrà avvenire, i nodi che attendono di essere sciolti. Certo se ne saprà qualcosa di più dopo che il ministro avrà fatto l’audizione in Commissione cultura di Camera e Senato, prevista intorno al 10 gennaio. Nel frattempo Giorgio Israel, docente di matematica nell’Univesità di Roma, fa un punto sulle principali questioni aperte.
Il tema che ha polarizzato il dibattito è quello di un nuovo maxi-concorso, lanciato – come ha detto lo stesso ministro dal ministro – per dare spazio ai giovani. D’altra parte lo stesso Profumo ha detto che «i dettagli li conoscerò dopo il 10 e 11 gennaio, quando andrò alle commissioni Cultura di Camera e Senato». Nuovo concorso, nuove opportunità per tutti, dunque.
Non ritengo che la tematica dei concorsi debba essere proscritta a priori. Il reclutamento è una delle questioni centrali della scuola e il ministro ha manifestato la sua preferenza per l’approccio concorsuale. Ciò è legittimo e, rispetto ad altre proposte circolanti, quella del reclutamento per via concorsuale è tutt’altro che debole. Il problema che si pone però è che, dopo un quindicennio di interruzione dei concorsi e dopo 4 anni di stasi nella formazione degli insegnanti, mettere in campo un maxi-concorso è un’impresa titanica e con molti rischi.
Cosa glielo fa pensare?
Il modo con cui il ministero ha affrontato il maxi-concorso per i dirigenti scolastici non depone affatto a favore della sua capacità di gestire un’impresa del genere. Inoltre, avviare un maxi-concorso prima che siano partiti i TFA (tirocinio formativo attivo) e le lauree magistrali per l’insegnamento è molto avventato: assisteremmo a un’ondata di ricorsi vincenti. Il ministro farebbe bene a chiudere definitivamente quel capitolo e poi ad aprire una riflessione sul reclutamento, anche propugnando la soluzione concorsuale. Nella consapevolezza però che, dopo l’avvio preliminare dei TFA e delle lauree magistrali, l’anno e mezzo di orizzonte governativo sarà trascorso, a meno che non si stia già programmando la successiva legislatura.
Ma secondo lei come si sta configurando l’azione del nuovo ministro? È stato sempre Profumo a dire: «(M. Gelmini, ndr) ha avviato una serie di riforme che possono essere migliorate, ma il transitorio sul transitorio non funziona. Bisogna portare a regime ciò che è stato varato e poi, magari, migliorarlo». Che ne pensa?
Non capisco questa espressione, che sembra indicare la volontà di affrontare tematiche molto vaste e non «transitorie». Se si tratta di portare a regime ciò che è stato varato, la prima esigenza è avviare rapidamente la formazione degli insegnanti. Il ministro ha affermato di volerlo fare, ma non si capisce che cosa impedisca di fissare finalmente i numeri di TFA e lauree magistrali. È uno scandalo che il Miur continui a menare il can per l’aia su una questione che potrebbe essere risolta in una mattinata. Ho vissuto quella odissea quadriennale, e quando leggo la sequenza di prescrizioni, consigli, riserve, richieste di modifica, che vengono avanzate proprio da chi ha consumato quattro anni di vita a ostacolare il nuovo regolamento per la formazione, mi rendo conto che è difficile vincere interessi corporativi ostinati, pervasivi e prepotenti. Ma un governo tecnico non dovrebbe potersi muovere senza badare troppo a questi interessi? Se il ministro non riesce a chiudere in tempi strettissimi, è difficile che possieda la forza necessaria ad affrontare un’agenda ambiziosa e vasta come quella che sta proponendo.
È evidente che il mandato di Profumo va collocato in un contesto più ampio: quello del governo Napolitano-Monti, dell’emergenza nazionale e della supplenza della politica. Ma è possibile governare la scuola senza fare scelte politiche?
Non esistono governi tecnici e non starò qui a dire qual è il profilo politico di questo governo, poiché è chiaro a chiunque non voglia chiudere gli occhi di fronte all’evidenza. Le scelte di questo governo non sono in Italia, sono a Bruxelles, e fortemente condizionate dal dettato tedesco. Non trovo strano che anche in tema di istruzione il governo Monti si appresti a seguire pedissequamente il dettato «europeo», il quale consiste di prescrizioni tecnocratiche, volte a garantire la massima mobilità del mercato del lavoro, in conformità con le famose competenze di Lisbona. Cultura e istruzione c’entrano poco: c’entra soprattutto la formazione della forza lavoro.
Ma è una novità?
No. E infatti, l’ultima fase del ministero Gelmini ha peccato per essersi piegata a questa visione che ora prende ancora più forza e si giova di tutte le nomine e le scelte fatte in quella fase precedente. L’istruzione italiana è sempre più a guida bancario-confindustriale, e questa è una scelta molto ma molto politica. Un tempo si poteva dire che l’istruzione era in mano a lobbies di pedagogisti. Oggi anche i pedagogisti, se non vogliono essere estromessi, debbono fare da foglia di fico di scelte economiciste. E difatti si cominciano a sentire molti lamenti da parte dei più consapevoli tra di loro…
La famosa lettera di Olli Rehn all’Italia citava espressamente il problema della valutazione e dei risultati Invalsi insoddisfacenti. Ha detto Profumo al forum di Repubblica: «il fine primario del nostro Invalsi è quello di fare una fotografia alla scuola e capire cosa non va». Come usiamo i dati raccolti?
Prima vorrei dire un’altra cosa. Trovo assurdo che nel contesto di una serie di “consigli” per salvare la situazione economica del paese si indichi come prioritario il tema della valutazione. Non perché sia contrario alla valutazione, sia ben chiaro: questa è una giaculatoria che occorre fare altrimenti si viene linciati. Ma è ridicolo pensare che l’introduzione di un sistema di valutazione possa condurre a un miglioramento del livello dell’istruzione tale da produrre risultati efficaci sul piano economico e favorire lo sviluppo. In realtà, quel che sta a cuore alla tecnocrazia che insiste su questo tema è di trasformare il sistema dell’istruzione – sotto l’impulso di una didattica sempre più basata sui test, sul teaching to the test, sulla frammentazione del sapere in abilità pratiche di valore immediato – in una fabbrica di “addetti” direttamente fruibili nel processo produttivo. Si potrebbero proporre discorsi di difesa della cultura, dei valori, sottolineare come su questa via si formino giovani privi di “ideali”.
In che senso?
Una persona che si occupa specificamente di formazione quadri osservava che oggi ci troviamo sempre più di fronte a giovani che non hanno appreso altro che a pensare “oggi farò questo”, “domani quest’altro”, che hanno la testa imbottita del “fare” e svuotata di capacità progettuale, più in generale della capacità di pensare cosa fare della propria vita. Non è la scuola delle competenze e dei saperi sgretolati in mille nozioni a quiz che può creare questa capacità. Ma, oltretutto, il fatto ironico è che una scuola finalizzata al processo produttivo finisce col distruggerne l’efficacia, perché senza cultura e scienza di base non v’è alcuna possibilità di effettivo progresso. Eppure, non passa giorno che non si predichi che la ricerca di base e la cultura non servono. Non passa giorno senza che ci si propini il tormentone della scuola che deve apprendere a “fare”. Giorni fa Pier Luigi Celli ha persino proposto che i docenti universitari debbano fare un semestre periodico di “stage” in azienda. Me lo figuro un filologo classico in un mobilificio. Il punto è che per gli eurotecnocrati la cultura e la scienza di base non si mangia: il sistema dell’istruzione deve ridursi a un’enorme scuola di formazione di tecnici, al massimo di ingegneri.
Ma che ruolo dovrebbe avere l’Invalsi, secondo lei? Fioroni, su queste pagine, ha auspicato che sia un istituto sempre più autonomo, terzo, di valutazione.
Ecco, veniamo all’Invalsi, perché non voglio proprio far carico all’Invalsi di colpe che non sono sue, quali quelle relative ai processi che criticavo prima. L’Invalsi può avere tre funzioni: 1. offrire elementi di valutazione del sistema scolastico; 2. valutare gli insegnanti, e 3. sostituirsi agli insegnanti nel valutare gli studenti. Ho scritto in un articolo che il ministro dovrebbe applicare l’Invalsi al primo compito, muoversi con i piedi di piombo sul secondo aspetto, e astenersi assolutamente dal terzo. Invece, già il ministro Gelmini aveva pensato di sostituire l’esame di matematica e inglese in terza media con un test Invalsi. Questo porta né più né meno al teaching to the test e può avere conseguenze distruttive.
Lei ha rivolto molte critiche di merito al contenuto dei test proposti dall’Invalsi.
Infatti. Critiche di merito, specifiche e dettagliate, in particolare sui test di matematica e di italiano. Non ho ricevuto una risposta degna di questo nome. Ho letto soltanto riaffermazioni di principio della bontà delle scelte dell’ente, con una prosopopea saccente e arrogante non degna di persone che dovrebbero essere preposte a giudicare in modo “oggettivo” il sistema dell’istruzione. Si è tentato di dipingere chi ha criticato nel merito come un agitatore di principio. Ho raccolto, oltre alle mie personali osservazioni, molte critiche di merito e ben argomentate da parte di tanti insegnanti. Ma tutto questo viene ignorato con sprezzo. Che titoli ha un ente che si comporta in questo modo di giudicare gli insegnanti e addirittura di sostituirsi a loro nel valutare gli allievi? Questa è la critica specifica che mi sento di rivolgere all’Invalsi per quel che ha fatto finora. Esso non ha dato prova di essere capace di allargare le sue funzioni addirittura ai punti 2 e 3, quando anche sul primo farebbe bene a ripensare a fondo il suo modo di procedere.
E quanto al fatto che un ente di valutazione come l’Invalsi basi la sua autorevolezza sulla sua autonomia?
È un’idea ridicola e inconsistente come quella che esistano governi tecnici al di fuori della politica. Chi nominerà i dirigenti dell’Invalsi? A quali organi di controllo saranno soggette le scelte dell’ente? La valutazione ha senso se è un processo interattivo in tutte le direzioni. Non esistono “unti del Signore” dotati della capacità speciale e insindacabile di valutare gli altri. Il giorno in cui venisse fatta una scelta del genere sarebbe la fine della dignità della funzione insegnante che ogni giorno si strombazza di voler difendere. Sarebbe peraltro una scelta funzionale a quella visione tecnocratica che denunciavo prima: un sistema dell’istruzione messo in mano a manager, in definitiva messo in mano alla peggiore politica. È il modello che abbiamo sperimentato nelle Asl, con quali risultati è superfluo dire.
Ancora la lettera: «Come il governo intende valorizzare il ruolo degli insegnanti nelle singole scuole? Quale tipo di incentivi il governo intende mettere in opera?». Ancora Profumo: «La valutazione sugli insegnanti, invece, deve essere su base volontaria». Le sembra possibile? O intende negare che il lavoro dei docenti possa essere valutato?
È indubbio che gli insegnanti debbano essere valutati! E non capisco cosa voglia dire “su base volontaria”. O si tratta di una valutazione che riguarda tutti o non ha il minimo senso. Come? Ho provato a delineare un sistema di ispezioni interattive in un documento che è facilmente reperibile. Confesso di essere alquanto stanco nel doverlo riproporre. Chi vuol leggerlo lo troverà facilmente: sono proposte precise e concrete.
Sempre a proposito di valutazione, si è chiusa la fase sperimentale del progetto Valorizza. Che ne pensa?
Forse si potrebbe non parlarne neppure perché, con i tempi che corrono, non so dove potrebbero essere trovate le risorse per estendere un modello premiale del genere a tutta la scuola italiana. Comunque, nel merito non ho mai condiviso quel progetto per ragioni che ho spiegato anche su questo giornale. Trovo assurdo che i “migliori” insegnanti vengano scelti dal dirigente scolastico assieme ad altri due professori “eletti”. Vi saranno – e, nel caso specifico, vi saranno certamente state – situazioni virtuose in cui il meccanismo può funzionare. Ma ve ne saranno altre – e non poche! – in cui si formeranno camarille composte da dirigenti di livello discutibile e da loro “protetti” che premieranno i peggiori, o quelli che non obbediscono supinamente al dirigente, e che magari sono i migliori.
Il solito clientelismo italico.
È bizzarro che dopo aver propugnato per decenni la “democrazia” scolastica, in forme di un egualitarismo becero, si passi direttamente a un modello autoritario basato sul potere assoluto del dirigente scolastico esente da ogni valutazione e ogni controllo. Del resto, se i futuri dirigenti scolastici saranno quelli selezionati sulla base dei criteri demenziali dei quiz del recente concorso, c’è da immaginare chi verrà premiato: le rotelle consensuali del grande meccanismo governato dalla dirigenza ministeriale. Vorrei inoltre osservare che trovo inaccettabile che un processo di valutazione di un sistema pubblico venga messo totalmente nelle mani di due organizzazioni imprenditoriali private. Ancora una volta siamo alla consegna dell’istruzione nelle mani della tecnocrazia confindustrial-bancaria.
Secondo lei è o no auspicabile una revisione dello status giuridico degli insegnanti, per arrivare a forme diverse di assunzione che facciano leva sull’autonomia delle scuole? Lei non ha mai nascosto la sua scarsa simpatia per il Pdl Aprea. Perché?
Questo discorso si ricollega al precedente. Il nostro è un sistema pubblico a prevalente (quasi totale) componente statale. È assurdo far finta che non sia così e trattarlo come se fosse un sistema integralmente privato. Il che non vuol dire che non sia giunto il momento di spezzare un dirigismo statalista del ministero che è diventato davvero soffocante. Ma si badi che questo dirigismo si riempie la bocca della parola “autonomia”. L’autonomia scolastica che vogliono è quella dell’“autonomia” di un dirigente scolastico onnipotente, il quale è però una rotella del ministero (e questa visione è emersa in modo sfacciato nelle domande del concorsone). Quindi, autonomia del dirigente di reclutare, licenziare, valutare (sotto le ali del ministero). Di certo, nessuna autonomia sul piano delle metodologie didattiche, della libertà di insegnamento: di quella neanche a parlarne. Ma non è soltanto questo il motivo della perplessità nei confronti del reclutamento diretto. Si è parlato molto del fatto che alcune università, in particolare nel sud, sono soggette all’inquinamento della criminalità organizzata, in particolare nel reclutamento. Vi sono stati anche procedimenti giudiziari al riguardo. Eppure le università sono strutture enormemente più vaste di una scuola e con una rete di personale molto più articolata e complessa, con molti più controlli interni. Un istituto scolastico è di gran lunga più fragile e non ci vuole molta fantasia per prevedere che le liste di reclutamento degli istituti scolastici, soprattutto in certe regioni, saranno direttamente gestite dalla criminalità organizzata. Anche il dirigente scolastico non colluso potrà davvero poco contro le pressioni che subirà. Per questo dicevo all’inizio che la proposta del ministro Profumo dei concorsi finisce con l’essere più forte – pur con tutti i suoi evidenti limiti – rispetto alla proposta del reclutamento diretto.
Il ministro ha manifestato la volontà di svecchiare la didattica, dando più spazio alle nuove tecnologie.
Non credo nelle virtù miracolistiche delle nuove tecnologie, non credo alla leggenda metropolitana dei “nativi digitali” (gonfiata dalle ditte informatiche per far quattrini). Sarei ben contento di sollevare i miei figli del peso dei libri che schianta la loro schiena a condizione che si affrontassero seriamente non soltanto tutti i problemi tecnici: compatibilità dei futuri e-book scolastici con i differenti tablet, semplicità d’uso che non trasformi lo studio in un perenne traffico da playstation, problemi di affaticamento della vista, costi, ecc. Ma soprattutto vorrei garanzie sui contenuti. Già i libri circolanti fanno pena: quattro righe smozzicate di nozioni seguite da quiz, caselle, domande spesso demenziali. Come garantire che non si vada sull’ultrademenziale, con e-book parlanti in cui devi pulsare caselle e salta fuori una signorina che pigola “sbagliato!” o “bravo!” e via dicendo.
Insomma, chiede garanzie precise che la scuola non diventi un colossale videogioco.
Esagero? Si legga allora il progetto ministeriale di editoria digitale in cui uno spazio consistente viene dedicato ai videogiochi “didattici”. Roba di una miseria culturale e di una irresponsabilità da far accapponare la pelle. Guardiamoci da una tendenza che già è evidente nel contesto americano, dove mentre l’industria informatica si lancia a testa bassa sulle scuole pubbliche o comunque di basso livello, digitalizzando tutto, aumenta il numero delle scuole in cui il ricorso ai mezzi informatici è proscritto e si studia con libri, lavagne e gessi. Sono scuole private costose, esclusive e frequentate dalla crema della classe dirigente, in particolare dai figli di tutti i dirigenti delle maggiori ditte informatiche!… Il New York Times ha fatto un ampio servizio su questo. Alti dirigenti di Apple e Google hanno dichiarato di non essere così scemi da far apprendere la matematica ai loro figli su un iPad. E così mentre ai poveracci si propina l’informatica, i figli dell’élite apprendono il latino, il greco e la matematica in modo tradizionale.
Dunque i nativi digitali…
…sono il nuovo proletariato, i futuri addetti alle aziende, quelli destinati a scopi di basso livello, e che abbisognano soltanto di una preparazione tecnica, di addestramento, di abilità di base. Ad altri è riservata l’istruzione di alto livello. E allora imbottiamo pure le scuole di LIM, di tablet, di videogiochi, di laboratori “pratici”. Formeremo dei giovani culturalmente primitivi, senza capacità di darsi una prospettiva di vita, capaci soltanto di operazioni elementari, di parlare a singulti, “gulp”, “argh” e “sob”. Il tutto per il benessere dei bilanci delle ditte informatiche – che affare saranno milioni e milioni di tablet scolastici! – i cui dirigenti spediranno i figli in scuole ultra tradizionali.
Su queste pagine fu lei, alla vigilia della crisi, a denunciare il pericolo di una simbiosi nefasta tra sindacati e apparato ministeriale. Un tecnico dovrebbe esserne immune: venendo «dall’esterno», potrebbe finalmente mettere ordine nelle cose. No?
Lo dissi alla vigilia della crisi. Del resto, assistevamo al ricostituirsi di un classico rapporto tra dirigenza ministeriale e sindacati che ha sempre condizionato l’opera di qualsiasi ministro. Ora non saprei quale sia la situazione. Tutto appare più nebuloso. Un ministro “tecnico” dovrebbe poter agire in modo autonomo. Ma, come dicevo, non esistono i tecnici puri, e le scelte politiche del ministro Profumo non sono ancora chiare. Se avviasse immediatamente i TFA sarebbe già un segnale evidente. Per ora sentiamo parlare di valutazione, digitalizzazione e altri discorsi molto tecnocratici. Anche sull’università sembra che suoni questo tipo di campana. Se mi è permesso, vorrei concludere con una considerazione generale.
Prego.
Resto fermamente convinto che un sistema dell’istruzione al cui centro non vi siano più le persone, con la loro spiritualità, la loro cultura, al cui centro non vi sia più l’incontro tra le persone del maestro e dell’allievo, e che non sia animato dalla ricerca della verità, e che sia invece centrato attorno alla “soddisfazione dei parametri”, ha perso il suo senso. Mi dispiace, ma mi rifiuto – e sono convinto di essere in buona compagnia, magari perdente, ma in buona compagnia – di aderire a una visione aziendalista della scuola.
Comincia il nuovo anno. Il suo viatico per il 2012?
Dedico ai lettori de IlSussidiario.net questa citazione visionaria di un grande pensatore cattolico (non ha importanza dire chi sia) in cui mi sono imbattuto in questi giorni e dalla quale sono rimasto molto colpito: «Se oggi al mondo c’è chi crede all’instaurazione di stati razionali e di economie basate unicamente su numeri e calcoli, indici di produzione e distribuzione, noi crediamo e sappiamo che la nuova spiritualità nascerà soltanto dal messaggio di chi, tagliando nelle viscere più profonde della nostra anima col vomero della irresistibile speranza, ci darà la sensazione vibrante che i simboli stanno per cedere il posto alla Realtà».