«Le affermazioni del viceministro Martone possono essere considerate anche giuste se le persone a cui fa riferimento nel suo giudizio sono ragazzi e ragazze che hanno come unico impegno quello dello studio per laurearsi. Ci sono però tanti giovani che durante gli studi svolgono altri lavori, oppure hanno tanti altri impegni, allora può darsi che quello che dice Martone non sia così vero. Non si può dire con certezza che chi si laurea a 28 anni sia un fannullone o uno sfaticato, perché probabilmente potrebbe trattarsi non di una scelta ma di un obbligo legato a problemi familiari, finanziari o di lavoro. Credo quindi si tratti di una banale generalizzazione, da cui ormai anche io mi astengo da anni». Adriano De Maio, professore di Economia e gestione dell’innovazione nell’Università Luiss Guido Carli commenta in questa intervista per IlSussidiario.net le parole del viceministro del Lavoro, Michel Martone, secondo cui è necessariso cominciare a «dare nuovi messaggi culturali: dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto professionale sei bravo e che essere secchioni è bello, perché vuol dire che almeno hai fatto qualcosa». Insieme al professor De Maio parliamo anche del rapporto della Fondazione Giovanni Agnelli che ha fatto un primo bilancio della riforma “3+2” rispetto al mercato del lavoro: lo studio rivela che i “nuovi laureati” (questo anche il titolo del rapporto) non guadagnano molto più di coloro che hanno scelto di fermarsi al diploma, quindi in sostanza la triennale fa trovare spesso lavoro, ma con stipendi sempre più bassi.
Professore, come commenta questi dati?
Non è facile commentare i dati forniti dal rapporto, e bisogna evitare di incappare in ulteriori generalizzazioni. Sarebbe necessario fare una valutazione del prima e del dopo, in cui si analizzi anche l’evoluzione, o in alcuni casi l’involuzione, degli istituti tecnici industriali. Il nostro Paese vantava una grande tradizione di questo tipo di istituti, e ora mi chiedo dove siano finiti. In passato potevamo fare a meno del primo livello di laurea, a differenza di quasi tutti gli altri paesi del mondo, perché avevamo un invidiabile sistema di formazione degli istituti tecnici industriali.
Poi cos’è accaduto?
Qualche istituto tecnico ha mantenuto questi standard, in alcuni casi anche migliorando, mentre altri sono incredibilmente peggiorati, per cui per fare un bilancio della riforma del “3+2” rispetto al mercato del lavoro bisognerebbe pensare ad un’analisi comparativa sulle scuole medie superiori, soprattutto nei settori tecnici, come geometri, periti, ragionieri e così via, confrontandole con tutto quello che viene dopo.
Lei cosa pensa della riforma “3+2”?
Personalmente ho dei dubbi su questa riforma, soprattutto perché nonostante il cambiamento è rimasto lo stesso corpo docente, che invece credo debba essere adeguato rispetto al tipo di formazione che si vuole dare. Ci sono straordinari professori di liceo che sarebbero mediocri professori universitari, ma anche viceversa, perché ci sono ottimi docenti universitari che al liceo non saprebbero dimostrare le loro capacità. Il tema delle competenze non è mai stato affrontato, come non è mai stata fatta l’analisi di che cosa ha significato per ingegneria una riduzione, che ora fortunatamente si sta attenuando, della presenza di professionisti nell’ambito della docenza universitaria.
A suo giudizio laurearsi significa ancora oggi avere maggiori probabilità di impiego?
In generale sì, perché prima di tutto si assumono delle competenze maggiori, ma bisogna comunque fare una riflessione: a suo tempo, io non avrei mai saputo fare il lavoro di un ottimo diplomato perito industriale, e c’erano posti di lavoro per ogni competenza specifica. Bisogna quindi vedere cosa oggi richiede il mercato del lavoro rispetto alle varie qualifiche professionali e al grado di competenze. Per rispondere quindi alla domanda, per qualcuno sicuramente sarà più semplice trovare un impiego, ma vorrei lanciare una provocazione, che non è solo una domanda retorica: possiamo ipotizzare che il laureato abbia più possibilità di trovare lavoro soltanto perché la formazione della scuola precedente non è in grado di formare figure pronte per il mercato del lavoro?
Lei cosa pensa?
L’innovazione e lo sviluppo industriale italiano sono stati in buona parte merito dei cosiddetti “peritoni”, i grandi periti industriali e geometri, mentre gli ingegneri, i fisici e i chimici non sarebbero stati in grado di fare lo stesso. Ora mi chiedo quindi se gli istituti di oggi riescano a offrire le stesse competenze teoriche e pratiche.
Secondo lei l’università è una miniera di disoccupati intellettuali?
Anche qui è necessario fare le giuste distinzioni. In facoltà come ingegneria, chimica, fisica e medicina il numero dei disoccupati non raggiunge mai soglie altissime. Dipende quindi dalla facoltà, e non è possibile parlare di università in generale, perché altrimenti si banalizza un concetto che andrebbe invece analizzato più a fondo.
Lo studio della Fondazione Agnelli rivela anche che, per assicurarsi un impiego, i nuovi laureati hanno dovuto accettare mansioni vicine a quelle di un diplomato. Questo potrebbe andare a favore delle imprese?
Certamente, ma questo non deve voler significare un abbassamento di professionalità generale. Poi il tema della produttività legata all’assunzione di diplomati e laureati riguarda più che altro il sistema organizzativo, gestionale e strategico dell’azienda.
(Claudio Perlini)