Benché da anni un coro bipartisan sia convinto che il valore legale del titolo di studio vada abolito, nessuno, ad oggi, è riuscito a scalfire minimamente quello che sembra uno dei più inattaccabili tabù del nostro Paese. Quando ormai la pratica sembrava archiviata, il governo Monti ha deciso di riesumarla, facendo tornare la questione all’ordine del giorno. Se ne è parlato nel Consiglio dei ministri di venerdì scorso e se ne parlerà in quello del prossimo venerdì. Attendersi l’eliminazione tout court sarebbe troppo. Ma qualcosa si muove. Tra le proposte in ballo, quella di rendere nullo il voto di laurea ai fini dell’assunzione nell’amministrazione pubblica e di stilare una classifica delle università italiane, in modo che la laurea pesi in maniera differente a seconda dell’università in cui è stata ottenuta. Di recente, svariati docenti universitari, tra cui Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, hanno sottoscritto una petizione, destinata a tutti i parlamentari, in cui si chiede di abolire il valor legale del titolo. Abbiamo chiesto al senatore Mario Baldassari, tra i firmatari del documento, le ragioni della richiesta.



Perché lei è favorevole all’abolizione?

Si tratta di una misura necessaria ai fini dell’equità sociale. Per capire cosa intendo, è sufficiente osservare cos’è avvenuto negli ultimi 20 anni.

Ce lo spieghi.

Sono prolificate sedi, facoltà e corsi di laurea con l’obiettivo di proteggere i potentati locali. Si è distrutto l’interesse degli studenti creando l’illusione che un’università facile e vicina a casa avrebbe potuto rivelarsi, effettivamente, un’opportunità di crescita e lavoro. Tutto ciò lo si è fatto lasciando al titolo ottenuto, a prescindere dalla sede universitaria, un valore legale.



Cosa intende?

Una laurea presa a Spinetoli, piuttosto che una presa a Ovindoli, vale tanto quanto una laurea presa al Politecnico di Torino, alla Bocconi di Milano, o alla Sapienza di Roma. Chi è più povero, quindi, cade più facilmente nella trappola. Avviene una selezione perversa, a rovescio: i ricchi possono scegliersi le sedi migliori, mentre i poveri non possono. Con il risultato che il figlio più intelligente dell’operaio finanzia quello più sciocco del ricco, dal momento che, in Italia, le tasse universitarie non corrispondono al costo effettivo supportato dall’Ateneo per lo studente.



Secondo alcuni il rischio è che con l’abolizione si incentiverà la nascita di atenei di serie A e atenei di serie B, penalizzando, in tal modo, coloro che non possono permettersi quelli più costosi.

Per questo si deve introdurre un sistema serio di borse di studio e prestiti d’onore. Lo studente deve sapere che quando va all’università costa 10mila euro l’anno. Ma se non può permetterselo e se lo merita, deve poterci andare egualmente, grazie al prestito.

Non crede che una misura del genere potrebbe favorire lo sviluppo economico e l’occupazione?

Sì, ma tra vent’anni. Si tratterebbe di un provvedimento i cui effetti non sarebbero osservabili nel breve periodo. Come, del resto, è vano pensare che le liberalizzazioni poste di recente in essere incrementeranno improvvisamene il Pil. Sta di fatto che, dal punto di vista del valore della laurea, siamo indietro di almeno 20 anni.

Tra le proposte in esame, vi è quella dell’accreditamento delle università.

Sono d’accordo. Non è possibile che, nei concorsi pubblici italiani, un dottorato preso a Chicago, Londra o al Politecnico di Milano valga tanti punti quanti uno preso a Canicattì.

In tal senso, a che punto crede che siamo con la valutazione?

Siamo indietro di trent’anni.

Lei cancellerebbe il voto di laurea dal computo del punteggio necessario per accedere a taluni impieghi pubblici?

No, se il voto di laurea fosse espresso sulla base di quella meritocrazia di cui stiamo parlando. Se ex ante conoscessimo il rating delle università, sarebbe, quindi, giusto far valer anche il voto.

Crede che sia la volta buona? Ovvero, questo governo potrebbe realmente riuscire ad abolire il valor legale del titolo di studio?

Credo che per il bene dei giovani italiani, chiunque abbia un minimo di buon senso deve auspicare che ce la faccia.