Non è stata una sorpresa: la seconda prova per l’esame di Stato al liceo classico sarà per il 2012 la traduzione dal greco; è pur vero che un margine di dubbio permaneva, visto che, se pur raramente, non sempre l’alternarsi del latino e del greco come seconda prova è stato regolare (nel 2003 era “uscito” latino come l’anno precedente, mentre nel 1998 e 1999, a sorpresa, per due anni di seguito la prova era stata la versione dal greco).
Contrariamente a quello che spesso si sente, non è affatto detto che la versione di latino sia più semplice; non sono pochi gli studenti che si sentono più sicuri in una prova di greco. Forse, per chi è più fragile sugli aspetti linguistici, c’è l’illusione che porta a credere che il latino si capisca di più, che “assomigli di più all’italiano”, ma, appunto, è un’illusione (a conforto degli studenti c’è anche il fatto che il commissario di greco è interno e quindi ha già avuto modo di chiarire ai propri allievi, per esempio, quanto e quando sia opportuno proporre una traduzione cosiddetta “libera”).
La seconda prova d’esame, comunque, il più delle volte fa paura, forse perché in genere anche nel corso degli studi la verifica di traduzione è subìta come una prova-trabocchetto, dove (tranne pochi eletti) i più si sentono in balìa della sorte, a volte benigna a volte no, anziché sostenuti dalle competenze via via acquisite. La traduzione insomma sembra lo scotto da pagare in una scuola che, e gli studenti lo sanno, dà molto.
Eppure la traduzione è un po’ come l’avventura della vita, è un incontro “corpo a corpo” in cui se si vuole capire chi o che cosa si ha di fronte bisogna desiderare di capire, e credere che sia possibile questo incontro. Come nella vita, anche nel lavoro di traduzione non bisogna saltare nessun passaggio: è un’illusione pensare di poter accedere a scorciatoie.
Di fronte alla versione che ci si presenta come un ignoto da scoprire bisogna con un po’ di pazienza e un po’ di audacia rischiare l’avventura dell’interpretazione.
Certamente non è pensabile di riuscire a imparare a tradurre in 4/5 mesi (questo è il tempo che ci separa dai giorni di esame) se non lo si è imparato in 4/5 anni. È vero però che con un esercizio intelligente si possono affinare, e di molto, le proprie capacità. Vale la pena dunque prendere in considerazione la possibilità di dedicare regolarmente del tempo, in questi mesi, alla traduzione: sicuramente non è opportuno rassegnarsi a priori a un “votino” nella seconda prova, che comunque ha un peso nel risultato finale. Non è possibile imparare a tradurre se si è convinti che non si imparerà; nello stesso tempo occorre essere persuasi che il tempo dedicato alla versione è tempo messo bene a frutto per incrementare la nostra capacità umana di ascolto: se il lavoro di questi mesi sarà esclusivamente finalizzato a “strappare” una sufficienza, quasi sicuramente (come per chi volesse imparare ad andare in bicicletta e continuasse a fissare la ruota anteriore), i risultati saranno deludenti o comunque scarsi.
In classe, accantonata la traduzione dal latino, ci si dedica ormai solo all’esercizio di traduzione dal greco: ma oltre al momento di traduzione vera e propria, anche la lettura dei passi di autori di prosa in programma (per l’ultimo anno di liceo, gli Oratori e/o Platone) permette di acquistare maggiore familiarità con la lingua, di rivedere strutture sintattiche dimenticate, di conoscere più da vicino lo stile proprio di alcuni autori.
È comunque indispensabile l’esercizio personale, come si diceva, regolare. Vale molto di più un impegno di mezz’ora/tre quarti d’ora due volte alla settimana che un intero pomeriggio ogni due/tre settimane. Se, come a volte capita, uno studente ha dimenticato declinazioni, coniugazioni e paradigmi, o quelle regolette di sintassi che al ginnasio ricordava bene, insomma, se (poca o tanta) c’è della ruggine, può essere opportuno, con pazienza, durante la traduzione fermarsi ogni volta che si incontra un fatto linguistico (una desinenza, un costrutto subordinante, ecc.) di cui non si è del tutto padroni e ripassarlo, fugando ogni dubbio. All’inizio il lavoro sembra interminabile (in una riga si possono incontrare quattro o cinque ostacoli…), ma in tempi relativamente brevi la fatica è ripagata. Certo non si può avere fretta; non possiamo decidere in anticipo quanto tempo un testo richiederà per essere ben compreso (né la validità di un esercizio si può misurare a metri di “prodotto finito”)!
Rivediamo il metodo di traduzione, tante volte sentito ripetere nel corso degli anni, ma molto spesso disatteso (sempre in cerca, come si è, di scorciatoie che si rivelano strade, o burroni, rompicollo…).
Dalla IV ginnasio lo studente si è sentito dire che non deve buttarsi sul vocabolario appena si ritrova in mano il foglio con il testo greco: è venuto il momento di provare, chissà che il docente non abbia ragione nell’insistere su questo punto!
Innanzi tutto, quando un brano è proposto alla traduzione in classe, viene letto a voce alta dal professore: bisogna far tesoro di questa lettura, segnando i nessi tra le parole che la lettura stessa mette in rilievo.
Certamente durante la prova d’esame anche il professore vede il brano da tradurre per la prima volta, perciò non si può riporre troppa speranza su una lettura davvero espressiva, così che il momento di ascolto iniziale viene a essere meno importante. A maggior ragione perciò occorrerà leggere attentamente il passo ascoltando la propria lettura; senza fretta, segnando i verbi e i nessi sintattici, mettendosi il più possibile in ascolto del testo, riprovando a leggere finché non sia chiara almeno la struttura portante. Non è fondamentale che tutto sia chiaro subito, bisogna però determinare che cosa è chiaro (quali strutture sono state sicuramente riconosciute) e che cosa non lo è, isolando cioè il problema (non ci si deve seppellire nel “non ho capito niente”, falsa via di fuga verso il disimpegno fatalisticamente rassegnato, perché non è mai vero che non si è capito niente): partendo da quel tanto o poco che si è capito, ponendo domande al testo (chi sta operando? che cosa? a chi? perché? ecc.), lentamente si cerca di allargare l’orizzonte della comprensione. Per facilitare questo è importante segnare i predicati, i nessi, le particelle, e legare ogni sintagma o complemento al tutto. In questo momento la matita è lo strumento più prezioso per aiutare la nostra attenzione!
È molto utile anche riprendere spesso, mentre si analizza, la parte di testo già analizzata, rileggerla, ascoltarla: è una verifica, strada facendo, della coerenza della nostra interpretazione.
Quando ogni parola del passo (non bisogna cedere alla tentazione, frequente negli studenti, di eliminare la parole di cui non si vede l’utilità: il greco pullula di particelle, monosillabi, preziose per la comprensione, spesso – forse perché così piccole? – trascurate) sembra avere una sua collocazione logica, o per lo meno oscilla in una ambiguità circoscritta (ma solo allora), si aprirà il vocabolario (non sarà troppo se, in sede d’esame, quando si hanno a disposizione quattro ore, tutta la prima ora trascorrerà in una analisi puntuale).
Anche nell’uso del vocabolario ricordiamoci che esso è solo uno strumento, a cui non è possibile delegare la comprensione del passo. Lo strumento va interrogato: devo avere già un’ipotesi di significato, perché il vocabolario “risponde” solo se sono poste delle domande: non incontro nulla se non mi aspetto nulla. Nello stesso tempo occorrono duttilità e disponibilità a riformulare la propria ipotesi se la risposta del vocabolario non è secondo le aspettative.
Vorrei fare un’ultima osservazione, più importante di quanto probabilmente non sembri. Le prove di greco di questi ultimi anni (2010: dall’Apologia di Socrate di Platone; 2008: da Come si deve scrivere la storia di Luciano; 2006 dal De tranquillitate animi di Plutarco) hanno presentato testi il cui argomento almeno in qualche punto era da supporre noto a uno studente dell’ultimo anno del liceo classico: per fare solo un esempio, il candidato del 2006, trovandosi alle prese con Socrate, Anito e Meleto (gli accusatori di Socrate), riconoscendo nel testo di Plutarco il riferimento a un passo dell’Apologia di Platone ha sicuramente tradotto con maggiore sicurezza e con maggiore precisione di quanto avrebbe potuto fare alle prese con personaggi ignoti. Se però, mentre traduce, lo studente è tutto assorbito dalla “tecnica”, senza lasciare spazio in sé al contenuto che via via dovrebbe scoprire, la possibilità di comprensione va riducendosi.
Ancora una volta si verifica dunque che la traduzione è tanto più adeguata quanto più chi traduce è interessato a ciò che sta facendo, è curioso della realtà a tutto campo, della civiltà che ha accostato durante i suoi studi.
Perciò, come un’adeguata preparazione alla seconda prova non può essere disgiunta dallo studio quotidiano vissuto con interesse, così dobbiamo lasciare aperta almeno la possibilità che anche quella giornata di giugno in cui saremo alle prese con un autore di 18 o di 24 secoli fa possa essere un momento di scoperta e di crescita.
(Elisabetta Cassani, Liceo classico G. Berchet, Milano)