I giorni di chiusura delle scuole per le vacanze natalizie non sono privi di notizie di rilievo per la scuola. Forse non è il momento più adatto per accorgersi di alcuni segnali interessanti, ma sarebbe un peccato non coglierli. Fra le occasioni di riflessione: si sono svolti a metà dicembre i due compiti scritti per gli aspiranti presidi, le scuole stanno ricevendo il pacchetto dei dati Invalsi relativi alle loro classi, con armamentario di percentuali e grafici, sta per partire il progetto “Scuole in chiaro”. Quale filo rosso unisce queste tre notizie?
Cominciamo dal concorso a presidi: sul sito dell’Adi sono state raccolte impressioni a caldo dei candidati, tendenzialmente negative riguardo alle tracce e in generale allo svolgimento della prova. Il sito presenta anche, regione per regione, le due tracce assegnate, una di carattere generale e dai margini ampi, e l’altra presentata come “studio di caso” di un problema specifico in un determinato contesto. Noto a margine che fra gli studi di caso in cui immaginare di intervenire, tutta una serie di situazioni diciamo così “problematiche”, e tali che potrebbero dissuadere un aspirante preside dal perseguire nel suo intento: bullismo, situazioni di abbandono scolastico diffuso, demotivazione degli insegnanti, incapacità di risolvere il problema degli alunni stranieri, calo di iscrizioni, clima di elevato tasso di degrado culturale, tensioni all’interno dei consigli di classe, ecc. (naturalmente al candidato è chiesto di ipotizzare un’azione risolutiva).
Se si trattasse un’immagine anche implicita della scuola, sarebbe quantomeno parziale: in realtà non è meno impegnativo per un dirigente scolastico riuscire a convogliare e a valorizzare le risorse magari frammentarie e scoordinate ma positive di un corpo docenti che prova a rispondere dal basso alle provocazioni del contesto.
Fatta questa osservazione a margine, vorrei segnalare che in ben tre regioni, Abruzzo, Sicilia e Sardegna, la traccia chiedeva all’aspirante ds come avrebbe potuto utilizzare i risultati delle prove Invalsi: “L’Invalsi ha di recente restituito alla scuola le schede diagnostiche dei risultati conseguiti dalle classi, raffrontati con i livelli medi rilevati nella regione di appartenenza e sul territorio nazionale…”; “A seguito delle prove Invalsi somministrate agli alunni partecipanti agli esami di stato della scuola secondaria di primo grado, il Dirigente scolastico dell’I.C. “G. Pascoli”, inaspettatamente, apprende che i risultati sia della prova di italiano che di quella di matematica non sono soddisfacenti…”; “il Dirigente scolastico prende atto che il Collegio dei docenti ha evidenziato che alcune classi presentano delle prove Invalsi notevolmente peggiori di quelli registrati dalle altre classi, mentre gli esiti degli scrutini sono nella norma della generalità della scuola…”.
Si tratta di un segnale importante, nel momento in cui l’Europa stessa vede nelle rilevazioni standardizzate uno dei possibili strumenti per tenere sotto controllo l’offerta formativa e l’incremento del capitale umano necessario alla ripresa, benché non sia ancora chiaro con quali modalità. Fra le 39 richieste di chiarimento di Olli Rehn al nostro governo, all’interno del capitolo “condizioni favorevoli alla crescita – incremento del capitale umano” figura, insieme alle richieste di incentivi per gli insegnanti, la seguente richiesta (al numero 13): “Quali sono le caratteristiche dei programmi di ristrutturazione per le scuole che hanno risultati insoddisfacenti nelle prove Invalsi?”: come dire che quello dell’Invalsi non è che il termometro diagnostico di problemi che vanno comunque affrontati, in una qualche giusta sede.
Senza cadere nell’illusione che si possa automaticamente tradurre i risultati in provvedimenti, certamente il primo passo è che le scuole prendano molto sul serio i dati loro inviati: da qui la sensibilizzazione dei futuri dirigenti. In questi giorni le scuole stanno ricevendo i dati riservati sui risultati delle loro classi, in forma disaggregata fino alle percentuali di risposta domanda per domanda. Le più attente fra le scuole ci stanno lavorando già da qualche anno. Più di 200 persone della sola Lombardia, fra referenti per la valutazione, dirigenti e insegnanti interessati, hanno seguito un ciclo di quattro incontri svoltosi nei mesi di ottobre e novembre presso l’Ansas Lombardia, coordinato da chi scrive. Abbiamo assistito alla “solita” parabola, solita per chi ha svolto analoghe operazioni in altre parti d’Italia: i partecipanti passano (condizioni di ingresso) dal giudizio negativo, non di rado per scarse conoscenze se non per partito preso, allo stupore per la qualità e la quantità dei dati, all’intuizione della opportunità di riflettere criticamente e con profitto non solo sui dati ma sul fare scuola, fino al capovolgimento dei giudizi con cui sono entrati, e a volte dei giudizi sugli stessi alunni. Quanti ragazzi che “vanno bene” alle prove Invalsi vanno male a scuola (e viceversa)? Ah, se i “diligenti” ragionassero di più, e i “divergenti” studiassero!
Nel questionario di commento sul ciclo di incontri emergono anche molte preoccupazioni: chi svolgerà, e con quali competenze specifiche, l’analisi dei dati? Quali sono le informazioni essenziali e significative in una tale mole di materiale (rapporti, indici di difficoltà delle domande, curva dei livelli di apprendimento, …)? Quanti anni occorrono perché le pratiche didattiche, a volte ancorate a routine decennali, possano trarre impulso da queste ricerche? E come combattere contro l’influsso determinante dei contesti socioculturali, magari in zone dove la corruzione e l’evasione fiscale dominano? Allo stupore si accompagna lo sgomento. I partecipanti a questo ciclo di seminari mostrano che ci sono scuole volenterose e interessate, che vanno aiutate a trarre un beneficio reale da tutta l’operazione che, se ha ricadute importanti sul sistema, può averne anche all’interno delle scuole, purché non siano lasciate a se stesse. Il momento in cui i dati vengono scaricati è solo il primo atto di un processo comunque impegnativo.
Forse qualcosa è cambiato, in questi anni, rispetto ai risultati delle prove standardizzate: lo dimostrerebbe l’attenzione recentemente riservata al Rapporto della Fondazione Agnelli, e l’accesa discussione ospitata da queste colonne, che ci auguriamo non si interrompa. Al di là del merito della questione, sul quale non ho competenze per intervenire, guardo con gratitudine al fatto che i risultati delle prove standardizzate siano oggetto di discussione scientifica nel merito, come a maggio lo fu la qualità delle prove Invalsi. Uno dei guai dell’Italia è quando prevale la posizione ideologica, l’appartenenza di corrente, il preconcetto. Si discute, invece che argomentare, se fare le prove o no, se scaricare i dati o no, se lavorarci sopra o no. A volte sono i giornali che dettano la linea, e non l’interesse delle scuole. Invece è necessario argomentare nel merito, sui metodi, sui vantaggi, sulle ragioni, ed anche sui limiti e sul modo di superarli.
Intanto, una notizia che certo sfugge ai più riguarda il progetto “Scuola in chiaro” di cui si è parlato anche su queste pagine. Durante un convegno al Cnr (fonte: Tecnica della scuola) il ministro, oltre ad annunciare l’istituzione della scheda contenente le caratteristiche della offerta formativa delle scuole (con informazioni “anagrafiche” per esempio sulle dotazioni di risorse interne), avrebbe detto che i circa 10 mila istituti saranno “sensibilizzati” a rendere pubblico anche il loro Piano dell’offerta formativa, “possibilmente corredato con i dati sugli esiti degli esami, delle prove”, sulle assenze, sulla dispersione, naturalmente lasciando “alle scuole, nella loro autonomia, l’inserimento di tutti quei dati relativi ai risultati delle valutazioni degli apprendimenti” ottenuti “tramite prove strutturate e standardizzate, che consentano confronti tra i risultati”.
Da notare l’idea che ogni scuola si possa servire dei dati forniti da Invalsi per una prima informazione agli utenti. Si è detto come questo passaggio non sia affatto scontato e richieda un lavoro di interpretazione dei dati, ma certamente invitare le scuole a farlo è un suggerimento che supererebbe la mera “anagrafe” nella direzione proprio dell’accountability anglosassone. Certamente meno impegnativa sarebbe la pubblicazione almeno degli esiti finali in termini di promossi, promossi con debito ecc. nel corso degli anni, come pure che le scuole si informassero se gli alunni, a un anno o due di distanza dall’uscita dall’istituto, sono in corso con gli esami universitari, per le superiori, oppure si collocano positivamente rispetto al segmento di studi successivo, per il I grado.
Sono alcuni elementi già suggeriti da Pier Cesare Rivoltella, che paiono più realistici rispetto a una “valutazione degli insegnanti”, la cui attuazione tecnica è allo stato attuale degli studi ancora in fase del tutto sperimentale, ed è causa non ultima della deleteria diffidenza verso le prove dell’Invalsi.
Per quanto riguarda gli insegnanti, invece, nel corso del medesimo convegno del Cnr sono stati presentati i risultati della sperimentazione sulla valutazione dei docenti, svolta lo scorso anno fra molte contestazioni in 33 istituti di Piemonte, Lombardia e Campania, con non poca fatica per reperire “candidati”. Il metodo pare meno adeguato di quanto non si fosse sperato, anche se la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo e Treellle, che hanno svolto l’indagine, sottolineano che “nella maggioranza delle scuole coloro che non rilevano errori nella lista dei premiati sono stati più numerosi di chi invece ha rilevato errori”. È comunque un segnale della necessità di superare l’autoreferenzialità, pur fra le grandi criticità che sono emerse in questo esperimento.
Altri elementi più condivisibili potrebbero provenire dall’altra sperimentazione Gelmini, quella sulla valutazione degli istituti scolastici, il VSQ in corso di svolgimento in quattro province (Siracusa, Arezzo, Pavia, Mantova), che potrebbe produrre indicatori esportabili per la lettura dall’interno delle diverse situazioni. Tutti elementi che, insieme alla creazione di uno spazio informativo per genitori e studenti sollecitato dal Miur, all’interesse della Fondazione Agnelli per la forbice creata nella scuola media, e fin da alcuni temi dati ai candidati alla dirigenza scolastica, indicano che i tempi non sono più quelli in cui un circoscritto numero di scuole boicottava la prova di seconda superiore ritenendola politicamente scorretta. Anche questo fa parte del “rigore” necessario per far fronte alla sfida presente.