1. Investimento in educazione e capitale umano: il punto di svolta nella crisi – La parola “crisi” viene dal greco krínein (all’origine anche del termine “critica”) e ha un significato in sé non negativo poiché significa “distinguere”, “discernere”, “giudicare”. Una crisi può essere infatti la premessa per una ripresa che oggi, dopo anni di difficoltà, errori e inadempienze, sarebbe davvero auspicabile. La prima considerazione che è importante fare in vista della ripresa è che, nel nostro Paese, si sta continuando a fare l’errore di ritenere la spesa per l’istruzione una spesa sociale e non un investimento. Al contrario, tutte le evidenze economiche (purtroppo dimenticate dall’orgia finanziaria ora in declino) mostrano che lo sviluppo è legato, nel lungo periodo, innanzitutto al miglioramento quantitativo e qualitativo del capitale umano. Uno studio di Robert Barro dimostra che in media l’aumento di un anno di scolarità oltre i 24 anni accresce il Pil di circa lo 0,44% all’anno. Per la scuola fino alla secondaria superiore l’Italia non spende poco (siamo al di sopra della media OCSE), ma spende male, soprattutto usando la scuola come un ammortizzatore sociale. Le ricerche internazionali mostrano che non esiste una correlazione positiva tra l’aumento della spesa e la qualità dell’istruzione, mentre quest’ultima (certificata a livello internazionale per esempio dai dati OCSE-PISA) appare legata all’autonomia, alla creatività, alla possibilità di esercitare in modo libero la professione docente.
Il nostro Paese, in particolare, povero di altre risorse, ha nel capitale umano la sua principale ricchezza. Ricordo sempre che il miracolo industriale italiano degli anni sessanta è stato reso possibile soprattutto dai “periti” che, grazie agli istituti tecnici e professionali migliori del mondo e grazie al loro desiderio di creare ricchezza e benessere, sono diventati imprenditori e hanno trasformato un Paese povero e distrutto dalla guerra a settima potenza industriale del mondo. Anche il liceo italiano, basato non sul pragmatismo anglosassone, ma su un tipo di conoscenza “per avvenimento” (metafisica e realista), è stato in grado di formare una classe dirigente di livello. Siamo stati capaci di creare nel dopoguerra un buon sistema dell’istruzione, sia nel settore tecnico-professionale, sia nel settore umanistico, ma ora lo stiamo buttando via e trascuriamo il suo nesso decisivo con la crescita. Questo è il grave handicap italiano, che mostra come la crisi abbia un fondamento innanzitutto culturale.
Per ricominciare seriamente a crescere, occorre riprendere la capacità di educare le persone, fattore che è stato il vero punto determinante della crescita di un Paese senza materie prime, senza forza politica, per fortuna senza forza militare, con grandi disuguaglianze. Proprio il “fattore umano” educato ha determinato la possibilità di uno sviluppo diffuso attraverso la grande, piccola, media impresa (pubblica o privata).
La crisi potrebbe essere un’occasione per riportare al centro il sistema dell’istruzione come elemento cruciale della crescita del nostro Paese, benché i politici, di destra e di sinistra, continuino a considerarlo alla stregua di un “problema sociale”. D’altra parte, proprio la centralità che assegnano al sistema dell’istruzione è la chiave del successo dei Paesi BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e di altri Paesi emergenti (sarebbe interessante verificare in particolare il loro investimento in istruzione universitaria superiore -master e dottorati – dove noi, oltre a investire male, investiamo anche poco).
2. Il profilo dell’insegnante in tempo di crisi: due possibili errori – In un contesto di crisi, l’insegnante sembra essere la figura in crisi per antonomasia. L’ultimo rapporto Education at a Glance 2011 dell’OCSE ha tracciato un quadro della scuola italiana in rapporto al contesto internazionale ancora una volta tutt’altro che lusinghiero. In estrema sintesi, ha detto che gli insegnanti italiani lavorano poco, sono troppi e percepiscono stipendi bassi. Accanto a note negative, ci sono però dati più lusinghieri. L’indagine conoscitiva Istat del 2007, per esempio, attestava che il 78,3% dei docenti, potendo ricominciare, avrebbe scelto di nuovo lo stesso lavoro per: il rapporto con gli studenti (87,8%), la passione per l’insegnamento (23,2%), la possibilità di mettere nel lavoro la creatività (10%), il rapporto con i colleghi (8,2%). Tra i motivi di insoddisfazione più segnalati compare al primo posto (23,1%) l’eccesso di burocratizzazione e solo al secondo (18,7%) l’inadeguatezza della retribuzione. A fianco alla situazione degli insegnanti c’è la crisi degli studenti: dai rapporti OCSE-PISA più recenti si ricava che il 38% degli studenti italiani di 15 anni ritiene la scuola un luogo in cui non si ha voglia di andare.
Intravvedo due principali deviazioni nel considerare la funzione educativo-formativa (la cui portata è ben espressa dalla definizione di Jungmann resa celebre da don Luigi Giussani: “introduzione alla realtà totale”). La prima consiste nel considerare l’educazione come un mero problema di apprendimento, o addirittura di addestramento; in una parola, considera l’educazione secondo un approccio utilitaristico; la seconda è quella di enfatizzare il ruolo della scuola dandole una funzione onnicomprensiva. Vediamole entrambe.
Nel progetto di riforma Berlinguer che precedette la riforma Moratti c’era un passaggio, attribuito a Umberto Eco (1), che riduceva l’educazione ad una mera funzionalità, cioè all’acquisizione di competenze più o meno tecniche al fine di inserirsi nel mondo del lavoro. In questo modo la persona non è considerata secondo tutte le sue dimensioni e nella sua unicità. In realtà, oggi l’attività produttiva non richiede solamente persone preparate, capaci e con conoscenze specifiche, ma persone capaci di cambiare, che sappiano adattarsi. Fate caso ai metodi di reclutamento e di formazione che vengono utilizzati: spesso le persone vengono fatte sedere intorno a un tavolo e viene chiesto loro di argomentare con altre persone; oppure vengono utilizzate tecniche che assomigliano ai giochi che si facevano da ragazzi per orientarsi in una situazione confusa e senza punti di riferimento.
Ma anche se non fosse così, come si farebbe a persuadere un ragazzo che è importante studiare la derivata se si occupa di funzioni, oppure le crociate se studia storia, oppure che valga la pena fare educazione fisica? Come faccio a far sì che l’apprendimento diventi strumento di crescita, se il ragazzo non è interessato, non è attratto? Sono rimasto molto colpito dall’osservazione di un mio amico giovane professore che trovava i suoi alunni distratti. Mentre li richiamava esortandoli a stare attenti, si è fermato e si è detto: “Ma qual è il contrario di distratti? Non è “attenti”, ma attratti”. Allora si è reso conto che il suo problema di fronte agli studenti consisteva nell’essere più interessante, attrattivo. Per educare, per introdurre alla realtà totale, occorre la capacità di attrarre, di provocare entusiasmo (parola di origine greca che significa che qualcosa entra in te).
Oltre a non sviluppare la personalità dei ragazzi in tutte le loro dimensioni, un’impostazione utilitarista non aiuta neanche in ambito lavorativo. Una volta il cambiamento tecnologico nel mondo produttivo avveniva ogni quarant’anni. Oggi l’obsolescenza è di 5 anni, perché i cambiamenti tecnologici avvengono rapidamente. Allora, imparare una tecnica, di qualunque tipo, senza la capacità di cambiarla criticamente, fa “invecchiare” lavorativamente, molto in fretta. Per questo non posso addestrare: devo introdurre, dare degli elementi critici, suscitare la capacità di giudicare. Oltre che la vita, anche l’azienda e tutto il mondo del lavoro oggi chiedono soprattutto questo. Voi non andreste mai da un avvocato perché sa recitare alla perfezione tutte le leggi: deve capire il problema che avete. Voi andate da un medico che non vi sottopone solo a tanti esami, ma vi visita e cerca di capire. Come fa mio padre che ha 89 anni e come medico non ha nessuno alla pari, tant’è che va ancora tutte le mattine in ospedale dietro ai giovani, gratuitamente, perché dice: “Bisogna rimanere aggiornati per fare questo mestiere”. Un insegnante deve prima di tutto insegnare a cambiare, non limitarsi ad addestrare.
C’è una seconda riduzione del processo educativo-formativo: è quella di considerare la scuola come soggetto onnicomprensivo, sia nel sistema statale che nella scuola libera; una scuola che pensa di dover essere l’unico (oltre alla famiglia) vero soggetto educativo e per questo ritiene di dover organizzare la vita del ragazzo, moltiplicando attività, riempiendogli possibilmente i pomeriggi. La scuola non può essere onnicomprensiva: i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che susciti il loro desiderio, non che organizzi loro la vita. Io capisco le esigenze lavorative dei genitori, ma rimanere a scuola deve essere una decisione libera e deve prevedere attività che non siano il prolungamento delle attività didattiche. Invece noto che sempre di più la scuola si pone come un soggetto educativo invadente che confonde l’educazione con l’organizzazione del tempo libero, attraverso attività di ogni sorta. Organizzare la vita a un ragazzo significa soffocarlo. Purtroppo questa è l’ideologia che domina nella scuola pubblica statale, in cui l’insegnante diventa un semplice ingranaggio di una certa idea di scuola; ma questo è ciò che sta avvenendo anche in certe scuole libere che organizzano momenti obbligatori come doposcuola o vacanze, nella convinzione che una scuola libera cattolica debba organizzare anche l’aspetto ideale o formativo della gente, ma sposando in questo modo un’idea di educazione ossessiva, che non sfida, perché non crede nella libertà dei ragazzi, e tradisce così il suo compito.
Le scuole cattoliche americane sono luoghi in cui si pianifica tutto, ma dove poi si impedisce la crescita di qualunque attività associativa o religiosa che non sia da loro organizzata, e questo provoca disagio. Qualcosa che si scelga liberamente è diverso. Sono un grande ammiratore del personaggio Tom Sawyer, protagonista del romanzo di Mark Twain Le avventure di Tom Sawyer. In questo libro c’è un episodio che racconto sempre. Tom Sawyer, all’ennesima marachella, è punito da zia Polly con l’obbligo di dipingere la staccionata al sabato pomeriggio, quando gli altri ragazzi vanno a giocare. Tom comincia a dipingere la staccionata mostrandosi pieno di gusto, anche quando gli altri ragazzi lo prendono in giro. Dopo un po’ gli amici, vedendolo così contento, gli chiedono di poter dipingere anche loro, offrendogli in cambio tanti piccoli regali, ma lui rifiuta. Alla fine Tom, con le tasche ripiene di singolari omaggi, lascia tutti gli altri a dipingere e se ne va a riposarsi sotto un albero mangiando una mela! Dipingeva così di gusto che tutti volevano farlo al posto suo. Mark Twain commenta che ci sono cose fatte per dovere, ma in modo pieno di passione, che affascinano e appassionano, e al contrario ci sono occupazioni proprie del tempo libero che, svolte per dovere, annoiano terribilmente (2). È molto diverso stimolare un’attività dall’organizzarla. Quindi, educare è introdurre alla realtà stando attenti a non ridurre l’educazione a meno della sua portata, né a esagerarla.
3. Educazione: apertura alla realtà che suscita il desiderio – Abbiamo visto come il primo obiettivo di un’educazione intesa come introduzione alla realtà totale, è quello di aiutare i ragazzi ad avere un atteggiamento di apertura nei confronti della realtà perché possa essere destato il loro desiderio. Perché il ragazzo ha dentro qualcosa che io non posso possedere. Il suo desiderio è fatto di qualcosa di più grande di lui, di una forza – don Giussani la definisce esigenza di verità, giustizia, bellezza – che è una risorsa che neanche lui sa di avere e quanto meno la vive, tanto meno è attratto da ciò che ha davanti. Allora, la prima sfida è che devo allearmi con questo desiderio: fare in modo non di “organizzare” l’istruzione, ma che il suo desiderio non sia ridotto. Leggendo Dante, mi colpisce – non sono un esperto – che il poeta identifica il male con la riduzione del desiderio. Perché un ragazzo non studia? Perché il suo desiderio è ridotto. Educare il desiderio significa innanzitutto far nascere un’attrazione per qualcosa che gli viene posta davanti. E per questo il primo modo con cui si insegna e si propone un argomento è far percepire sinteticamente, non analiticamente, il valore delle cose.
Faccio un esempio tratto dal mio lavoro: occupandomi di statistica multivariata, insegno modelli il cui obiettivo è ricercare i nessi tra variabili. Nei primi anni partivo, come fanno molti miei colleghi, mettendo tutti gli ingredienti sul piatto: allora, questa è la regola tal dei tali, poi c’è la legge, la teoria della stima… Vedevo che questa impostazione alle classi di studenti faceva lo stesso effetto che se gli avessi parlato dell’allevamento dei lama nell’alto Perù: prendevano appunti, sperando di passare l’esame. Poi ho capito qual era il problema: non facevo percepire loro sinteticamente lo scopo della questione, il suo punto di interesse. Allora ho cominciato a parlare di cose che all’inizio sembravano non avere niente a che fare con la statistica, ma che erano più direttamente pertinenti alla loro esperienza quotidiana. Un esempio che faccio soprattutto nelle classi a maggioranza femminile prende spunto dalla descrizione di un reparto di cosmetici di un supermercato. Quindi chiedo: “Voi che cosa comprereste in un reparto cosmetici…?”. E comincio a dialogare con loro invitandole a ragionare su quali siano i criteri determinanti che inducono a comprare un certo prodotto di bellezza, la cipria, il rimmel o cose di questo tipo. All’inizio sembra che voglia perdere tempo, poi a un certo punto dico: “Certo, sarebbe interessante capire se le donne esteticamente meno dotate comprano più rimmel delle altre! Potremmo fare un’indagine a partire da questo fattore che viene preso in considerazione all’ingresso del reparto… Questo è un modello statistico, perché cerchiamo di vedere se c’è un nesso inverso tra l’aspetto esteriore e la quantità di oggetti che una persona si mette addosso”.
Capite che la cosa comincia a suscitare un certo interesse, viene fuori il desiderio, magari in modo implicito… Per suscitare il desiderio devi partire da una sintesi, devi partire dall’aspetto della realtà che lo mette in azione. Invece di partire dall’analisi, che è il modo con cui tante volte si insegna anche in università, bisogna partire dallo scopo, allearsi col fatto che la curiosità ha voglia di trasformarsi in sapere compiuto. Mi raccontava un’amica che insegna in un’università americana in cui si respira un clima anticlericale, che le è capitato di fare un corso sul tema delle crociate. I ragazzi erano bloccati dalle idee preconcette da cui prendevano spunto ed erano poco disponibili ad affrontare l’argomento. Lei, con calma, senza ribattere in termini ideologici, si è limitata ad esporre una serie di fatti che hanno permesso agli studenti di essere più disponibili ad approfondire. Quando il desiderio viene suscitato, si esprime in domanda, e infatti sono i ragazzi a chiederti di andare a fondo e continuare il dialogo. È il famoso esempio che fa don Giussani ne Il Senso Religioso, quando racconta che scrisse sulla lavagna “RAU”, e subito uno contestò: “Lei fa sempre politica, perché questa sigla significa: Repubblica Araba Unita”. Invece lui: “No, questa è una parola che ha un certo significato in russo…”.
Il desiderio emerge, si mette in azione quando si esprime in domanda. E come si fa a capire se si tratta di desiderio oppure di un sogno? Io fornisco sempre un criterio: per essere vero il desiderio non deve far fuori nulla di ciò che razionalmente esiste. Questa posizione corrisponde a un concetto che ad esempio in statistica suona così: se un modello nelle sue ipotesi, ancora prima di essere verificato nella realtà, nega qualche principio razionale, vuol dire che è palesemente falso, come nel caso in cui un modello porta a soluzioni non uniche anche a fronte di medesime ipotesi. Il primo criterio per verificare se il desiderio abbia una consistenza razionale è se non nega nulla di ciò che si sa esistere. Se ciò avviene ci si può introdurre nella verifica della realtà. Io voglio verificare se questo desiderio, che genera una conoscenza non a priori palesemente falsa, regge nel confronto con la realtà. Voglio verificare se l’impatto con la realtà conferma l’ipotesi.
Perché questo accada occorre aver coscienza che la realtà supera sempre quello che possiamo pensare. La realtà aiuta a vincere i pregiudizi, come dimostra un esempio riguardante la scoperta del Big Bang che mi ha suggerito un famoso astrofisico. Gli studiosi si sono accorti di un suono di sottofondo nell’universo che dava fastidio, allora hanno tentato di eliminarlo con dei filtri. Ad un certo punto a qualcuno è venuto in mente che forse il rumore di fondo, invece che un disturbo da eliminare, fosse qualcosa che valesse la pena indagare. Invece di filtrare il rumore di fondo hanno filtrato i rumori soprastanti e hanno cominciato a seguire questa realtà, e così hanno scoperto che quello era il riflesso del Big Bang. Che cosa vuol dire tutto ciò dal punto di vista didattico? Che se c’è qualcosa che non funziona non è perché l’arbitro è venduto o la realtà è sbagliata, ma può darsi che l’ipotesi con cui sono partito sia da cambiare. È lo stesso che dire: quando fate dei modelli statistici e vedete degli errori che non sono distribuiti in modo casuale, invece di sostenere che avete sbagliato, provate a pensare se non ci sia un altro modello più pertinente con cui fare i conti. Questa posizione parte dall’idea che la realtà che abbiamo davanti contiene sempre qualcosa che è possibile scoprire.
4. Il percorso della conoscenza – Quindi, il desiderio suscitato introduce nella realtà con una capacità di cambiamento. Questo mostra che la conoscenza è un percorso. Oggi ho tra mano una realtà che domani conoscerò in modo diverso. All’inizio ero terrorizzato dalla complessità di certi aspetti della statistica, avendo avuto una formazione economica e avendo approcciato la statistica solo successivamente. Mi trovavo quindi inadeguato rispetto ad altri. Poi mi è venuta in mente l’immagine del percorso, che cerco di comunicare agli studenti, e che ha una traduzione nei termini di un detto lombardo: “piutost che nient l’è mei piutost”, cioè “piuttosto che niente meglio piuttosto”. Piuttosto che non sapere niente comincia a sapere qualcosa. Infatti, sapendo qualcosa cosa fai? Magari vai da qualcuno e chiedi: “Senti, mi insegni questa tecnica che non conosco? Mi aiuti a fare un passaggio in più?”. Allora al ragazzo dico: “Non fermarti, sai poco, ma invece di demoralizzarti perché non sai, pensa che la conoscenza è un percorso!”.
All’inizio della mia carriera chiesi ad un ordinario di Diritto canonico, ora in pensione, di spiegarmi come facevo a capire se andavo avanti o no. Rispose: “Guarda, la conoscenza è come una montagna. Tu devi verificare se in te questa montagna man mano cresce e non se arrivi alla vetta!”. Questo consiglio contrasta con i due principi più diffusi: “so già tutto” e “non so niente, quindi rinuncio”. La conoscenza è un percorso: la realtà, che è misteriosa, si apre davanti a te e pian piano il desiderio che hai dentro l’afferra sempre di più.
La conoscenza è una progressività e io ho imparato (e questo è stato fondamentale nella mia carriera universitaria) a fare questo percorso, a capire che se sono a metà, va bene, perché non sono all’inizio, quindi posso andare avanti; però non sono neanche arrivato, allora mi muovo, agisco, mi rimetto in azione. In questo è importante curare i particolari, anche quelli apparentemente insignificanti e noiosi. Questo punto posso esplicitarlo con un semplice esempio: la mamma che adora il bambino, ma non gli pulisce il sederino è una mamma che non ama il bambino. Infatti, se una mamma dice “che bello il mio bambino”, ma non si alza di notte a cambiarlo, non gli vuol bene. Questo, dal punto di vista dell’insegnamento, implica un’educazione al sacrificio rappresentato dalle grammatiche inevitabili in ogni materia. Per fare statistica, ad esempio, devo anche imparare cose elementari e noiose, imparare cos’è una “media”, cos’è una “varianza”. Per far capire il latino devo insegnare “rosa rosae”; per introdurre alla filosofia devo insegnare a ragionare in un certo modo, ecc.
Ve lo dico ancora con un esempio che mi riguarda. All’inizio della mia carriera, uno dei primi lavori di cui mi occupai si intitolava “Il pendolarismo in provincia di Bergamo”; scoprii un algoritmo di cui ero tutto fiero. Portai il lavoro al mio professore che mi disse: “Bravo, molto bella questa cosa dell’algoritmo, però ascolta, a Calolziocorte ci sono molti alberghi?” “Perché?” “Perche tu hai scritto che alla mattina entrano in 100 e alla sera ne escono 20; quindi 80 rimangono lì in albergo”. Figurarsi, avevo fatto l’algoritmo, ma non ero andato a fare i conticini per controllare: io volevo essere uno scienziato! Nella mia materia se dimentico un apice cambia tutto: il lavoro può essere perfetto, ma diventa da buttare. Bisogna aiutare il ragazzo a capire che nel percorso della conoscenza l’aspetto analitico ad un certo punto (non all’inizio) è indispensabile. Bisogna fargli sapere subito che quello che si sta andando a fare è una torta, ma poi deve sapere che serve lo zucchero, il sale, ecc. Occorre sapere l’obiettivo, conoscere i singoli passi per raggiungerlo e saperli realizzare. Questa impostazione ha anche modificato il modo in cui faccio gli esami: oltre che rispondere a domande teoriche, chiedo di risolvere un esercizio dall’inizio alla fine perché voglio che gli studenti siano in grado di verificare l’intero processo. E i ragazzi sono soddisfatti, ad esempio, di saper usare un modello lineare dall’inizio alla fine e, magari in modo rudimentale, di riuscire a interpretare dei dati di realtà. E alla fine si appassionano di una cosa che potrebbe anche non servire per il lavoro che andranno a fare, ma avranno conosciuto un pezzo di realtà.
Il percorso conoscitivo descritto ha una caratteristica: non è solitario.Posto che io non sia né il più mediocre né il miglior insegnante italiano di statistica, ho sicuramente una caratteristica: ho attivato molte collaborazioni. Vi faccio un esempio tra i tanti. Venne nel mio istituto, quando ero ricercatore, un professore di chiara fama, chiamato dai miei capi, che dopo un po’ però fu isolato. Era un argentino, aveva studiato in America, e cercava qualcuno con cui lavorare in Italia, così mi propose di lavorare insieme a lui. Io accettai, perché ero stato educato a vivere i rapporti come un’opportunità, e quindi avevo e ho una naturale simpatia a mettermi insieme e non ho il problema della gelosia. Questo docente mi fece fare un percorso importante nella carriera. Questa cosa si è verificata tante volte, perché di fronte alla possibilità di collaborare sono stato educato a dire: “perché no?”. Se uno mi propone una cosa, anche se non ha tutti i “denti bianchi” o magari è un po’ nervoso, io dico “sì” e questo per me è il fattore più interessante della mia carriera.
Un secondo esempio: io lavoro molto con i giovani e vedo che uno che si è laureato 20 anni dopo di me sa usare un computer o un pacchetto statistico 50 volte meglio di me. Eppure il giovane non può fare quello che fa se non ha l’esperienza che ho io. Allora mettersi insieme diventa un’interazione anche necessaria. Per un insegnante è importante condividere con altri il suo lavoro per arricchirsi.E invece questo è un ambito in cui l’individualismo domina. Come nelle grandi università americane in cui i professori non hanno bisogno di controllare se gli alunni copiano, perché la competizione è a un punto tale che nessuno lascia copiare. Io sono convinto che far girare la conoscenza, mettersi insieme, non tenere per sé le cose prodotte, fidarsi, sia estremamente più interessante. Me lo insegnò un amico finanziere, parlando del distretto delle forbici di Premana (è una valle in provincia di Lecco dove fanno la gran parte del fatturato mondiale di forbici). Mi disse: “Sai, lì arrivano da tempo i giapponesi e poi i cinesi e fotografano tutto per copiare. Solo che tutta la valle lavora insieme sulle forbici e ogni giorno vengono fatte cose nuove…”. Questo esempio è indicativo di cosa vuol dire usare il cervello ma anche mettersi insieme.
5. Problemi aperti e indicazioni per una scuola nuova – Uno dei maggiori limiti che vive la scuola è la divisione tra cultura umanistica e cultura tecnica. Una volta andai alla Piazza dei Mestieri di Torino e vidi che i ragazzi erano impegnati in una gara di poesia; allora osservai: “Ma perché fate perdere del tempo con la poesia ai ragazzi che vogliono fare i parrucchieri o i pasticceri?”. Mi fu risposto: “Noi formiamo delle persone, non delle capacità ed è importante che chi si forma maturi un gusto, non solo una tecnica. Inoltre, userà anche meglio una tecnica se avrà una migliore formazione umana”. Inoltre, non tutti i ragazzi sono uguali, bisogna saper diversificare. Nel romanzo Metello di Vasco Pratolini, c’è un brano in cui il protagonista racconta di come al mercato gli capitò di trovare un suo ex alunno, che lui aveva espulso, mentre vendeva la verdura. Il giovane gli fece una tale lezione sulle verdure, che lui ne rimase sorpreso e ammirato. Oggi noi, condizionati da una cultura massificata, pensiamo che chi non frequenta il liceo sia meno capace o dotato, mentre anche il percorso di una scuola professionale può aiutare la crescita della personalità del ragazzo e la formazione delle conoscenze e delle competenze che gli serviranno nella vita adulta. E valutare questo percorso di serie B significa commettere l’errore di far dipendere il valore di uomo da ciò che fa, oltre a non rispettare le diverse caratteristiche dei ragazzi. Come insegnante devo saper discernere, prendermi la responsabilità di capire per che cosa ciascuno è fatto. In questo senso, occorre valutare il merito, l’eccellenza, la differenza e aiutare tutti a fare il loro percorso. Di solito questi due scopi – il merito e l’aiuto a tutti – vengono contrapposti. Per esempio, in Italia c’è bisogno di più laureati, perché, rispetto agli altri Paesi OCSE ne abbiamo pochi; ma questo non deve comprimere l’eccellenza.
Tutti questi sono limiti che devono essere superati: la separazione tra cultura umanistica e cultura tecnica; l’incapacità di discernere tra le caratteristiche delle persone e l’antinomia tra valutazione del merito e opportunità per tutti.
È sotto gli occhi di tutti come l’esperienza scolastica dipenda soprattutto dall’iniziativa dei suoi insegnanti, da quanto siano in grado di sviluppare pienamente un percorso educativo e didattico. Ed è sempre possibile che ciò avvenga, ma le condizioni istituzionali possono pesantemente condizionare tale processo. Da questo punto di vista, la mancanza di autonomia della scuola italiana mortifica la professionalità insegnante. Il centralismo burocratico impone delle programmazioni tali per cui è difficile contemplare la diversità, ad esempio, di ambiente o di esperienza, mortificando la libertà di iniziativa degli insegnanti che tendono ad essere considerati degli impiegati.
Parlare di autonomia non significa affatto sostenere il privato contro il pubblico, ma sostenere uno strumento perché sia possibile sviluppare diversificazione e libertà, sia nelle scuole statali che in quelle libere, e valorizzare la professionalità degli insegnanti. Per questo è fondamentale il tema del reclutamento. È impossibile costruire una scuola autonoma e libera senza che il reclutamento sia a livello della singola scuola. L’abilitazione accerta il raggiungimento di un certo livello di preparazione, ma poi deve essere la scuola a poter scegliere gli insegnanti che ritiene più adatti; occorre introdurre la possibilità di selezionare in base al merito, perché questa è una professione intellettuale ed è necessario avere la possibilità di diversificare. Ed è importante che vengano introdotte autonomia e capacità di competere tra le scuole, se no è come se una squadra di calcio dicesse: “Prendo un centravanti che non segna gol!”. È evidente che dove c’è competizione un discorso del genere non ha senso. Lancio una proposta che può fare discutere: bisognerebbe poter far scegliere ad un insegnante se avere un incarico a tempo indeterminato con uno stipendio equiparabile agli attuali standard, oppure un contratto a tempo determinato con lo stipendio più alto. Rischi di più, ma prendi di più. Chi ha detto che l’unico tipo di contratto debba essere quello a tempo indeterminato? Ritengo che sia meglio concepire l’insegnamento come una professione liberale e, a fronte di rischi più grandi, cercare pian piano soluzioni che permettono di guadagnare di più. È un insulto che l’insegnante al massimo della carriera guadagni meno di un usciere pubblico, avendo fatto il percorso di studi che sappiamo. Almeno che sia lasciata la libertà di scelta, e questo però implica che il percorso di carriera preveda una valutazione concepita secondo un criterio e un percorso coerenti. Da questo percorso dipende la qualità di un progetto educativo-didattico che non può essere garantita senza alcuna valutazione, lungo tutta la vita professionale, o senza stimoli, professionali o anche economici, come accade ora.
La nostra proposta di scuola e di insegnante, in questo periodo di crisi, è una proposta di lungo periodo: dunque perché lottare lo stesso? Per una ragione ideale: perché la funzione della scuola è decisiva per lo sviluppo di una società e perché la libertà di educazione è determinante per la qualità della scuola. Ho partecipato al primo convegno sulla scuola nel 1987 a Roma. Aveva come titolo: “Non di sole aule vive la scuola” e vide la partecipazione del Cardinale Poletti. Sono passati 24 anni e potremmo costruire una squadra di calcio con i ministri che sono passati (destra, sinistra, centro, alti, bassi, uomini, donne); è cambiato poco, ma noi andiamo avanti perché crediamo che la scuola sia il punto cruciale in una società e perché, anche in una scuola con molte cose ancora da cambiare, è possibile comunque educare e questo desiderio non è comprimibile. È ciò che vedo con i ragazzi che in università cercano sempre più di costruirsi la loro strada: “Professore, posso fare lo stage? Posso andare all’estero a fare la tesi? Mi mette in contatto con qualcuno?”. I migliori hanno capito che molto dipende dalla loro personale iniziativa e che non devono aspettare che cambi il sistema. Penso che per noi valga la stessa cosa.
Il testo è la comunicazione tenuta dall’autore, presidente della Fondazione per la sussidiarietà, in occasione della Convention Scuola di Diesse, Bologna, 15-16 ottobre 2011.
(1) «Si devono fondere meglio conoscenze e competenze: cioè il saper fare qualcosa e il conoscerne la ragione. Se insegni a un ragazzo la geometria di Euclide in astratto, lui può chiedersi perché imparare? Ma se la spieghi in riferimento alle piramidi, allora, conoscenze e competenze si saldano in modo giocoso». «Ma per fondere bene competenze e conoscenza – ha spiegato Umberto Eco – ci devono essere grandi scambi interdisciplinari, e cioè su un medesimo argomento gli insegnanti di diverse materie devono fare lezione contemporaneamente. Sarà perciò una scuola in cui forse due-tre insegnanti affronteranno, nella stessa ora, il medesimo tema da prospettive diverse». «La scuola italiana – ha osservato il professore – ha sulle spalle il peso di un’eredità storicizzante che a volte rischia di far perdere il senso della storia». «Sino ad una certa età – è la proposta – dovrebbe essere data importanza soprattutto all’apprendimento delle emergenze della storia, per poi passare alle sequenze storiche in modo rigoroso. Per esempio, a proposito di guerre puniche, più che le date conta capire come mai i romani hanno costruito navi diverse, con che tecniche, per passare ai Vichinghi, a Cristoforo Colombo, fino alle differenze con “Luna Rossa”». «Capire come funziona un acquedotto – ha detto ancora – può essere più importante che ricordare la data della battaglia di Zama». Da Il Corriere della Sera, 2 marzo 2000.
(2) «Tom si disse che il mondo non era poi così deludente, tutto sommato. Aveva scoperto, senza saperlo, una delle grandi leggi del comportamento umano… e cioè che per indurre un uomo o un ragazzo a bramare qualcosa, bisogna soltanto far apparire quella cosa difficile da ottenersi. Se fosse stato un grande e saggio filosofo, come l’autore di questo libro, si sarebbe reso conto a quel punto come il Lavoro consista nella qualsiasi cosa una persona sia costretta a fare, mentre il Divertimento consiste in qualunque cosa quella stessa persona non sia affatto costretta a fare». M. Twain, Le avventure di Tom Sawyer, Newton Compton, Roma 2010, p. 35.