Bravi! Ieri avete scioperato: molti sono scesi in piazza, la maggioranza se n’è andata in giro a farsi i fatti propri, qualcun altro è rimasto saggiamente a dormire. Anche ieri non avete percepito nessuna ragione per entrare, quel luogo non suscitava alcun fascino. E si sciopera soltanto quando una cosa non affascina: per esempio, non sciopererei mai dai miei figli. Per molti sarebbe bello se ne organizzassero uno al giorno, di sciopero: perché non succede mai qualcosa per cui valga la pena stare in classe. E allora meglio scappare, come vigliacchi. Pronti a farsi prestare qualsiasi slogan pur di non impegnarsi con la propria realtà. Penso a tanti studenti, ma soprattutto a tanti insegnanti, perennemente lamentosi: ce l’hanno col ministro, con i tagli, con il proprio ruolo screditato.
Ieri siete rimasti fuori. E adesso? Cos’è cambiato stamattina? Rimettendo i piedi in classe, dove sono finite le idee di ieri, o la spensieratezza di ieri? La mattina di ieri cos’ha cambiato della mattina di oggi? Sentite più entusiasmo, avete una ragione nuova per combattere, avete cambiato la scuola, siete cambiati voi? La matematica che ieri non sopportavate oggi è improvvisamente affascinante? o la stanchezza di insegnare si è magicamente trasformata in struggimento per i volti che avete davanti?
Per un giorno avete saltato la scuola. Non avete avuto nemmeno il coraggio di scegliervelo da soli, il giorno da saltare. Avete obbedito all’ordine di qualche sindacato, che periodicamente ha bisogno di organizzare qualcosa per dimostrare la sua esistenza. Tanto questa scappatella non costerà niente (al massimo consegnare una giustifica ai prof che vi faranno l’occhiolino). «Oh generazione sfortunata!» scriveva Pasolini,
arriverai alla mezza età e poi alla vecchiaia
senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere
e che non si gode senza ansia e umiltà
e così capirai di aver servito il mondo
contro cui con zelo «portasti avanti la lotta»:
era esso che voleva gettar discredito sopra la storia – la sua;
era esso che voleva far piazza pulita del passato – il suo;
oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Me la ricordo bene, la pressione fuori dal mio liceo quando tirava aria di sciopero: “o tutti o nessuno”, ci ripetevano da buoni fascisti perfino i professori di sinistra. E che coraggio ci voleva per disobbedire a quella folla urlante! Ho fatto il liceo a Taranto, e un sabato si scioperava per l’inquinamento dell’Ilva, un altro contro la cassa integrazione all’Ilva, che avrebbe dovuto dare più lavoro. Dopo vent’anni, ditemi, non vi pare ridicolo?
La tradizionale pasquetta di ieri è tutto fuorché una lotta. Al punto che gli studenti camminavano a braccetto degli insegnanti. Ossia di quella «generazione sfortunata» che vuole imporre la propria frustrazione, la propria rabbia di potere. Ma se sono tanto delusi, se entrando in classe comunicano ormai soltanto la loro acidità, perché non cambiano mestiere? Non hanno mostrato le ragioni, il fascino, l’energia per sostenere la fatica quotidiana dello studio: hanno fatto della scuola un luogo da cui è bello scappare. E ieri, pur di sfogarsi, hanno lasciato allo sbaraglio decine di migliaia di ragazzi, e ne hanno abbandonato altre migliaia, tra quelli che erano entrati, magari in pochi: perché quando in classe ce ne sono 30, sono troppi; quando invece sono 3, sono pochi, e allora meglio andarsene a fare altro, come se quei 3 fossero 0.
Anch’io vorrei non essere precario, che gli stipendi fossero più alti, che fosse ritirato il concorsone. Ma so che il vero problema viene prima: ed è la ragione – cioè l’attrattiva – per cui vale la pena entrare a scuola. Se tutto fosse a posto ma non accadesse una novità nel mio sguardo sulle solite cose, a cosa servirebbe?
Avete letto Il barone rampante di Italo Calvino? La storia di quel ragazzo che salì sugli alberi e ci rimase ostinatamente, diffondendo le sue idee per un mondo più giusto? A un certo punto prese il «quaderno della doglianza e della contentezza» e chiese a ciascuno, come fanno tanti insegnanti, di scrivere cosa andava bene e cosa andava male del mondo. Quando il quaderno tornò a lui, e gli toccava annotare il suo desiderio più profondo, ebbe un colpo di genio, e mandò all’aria tutte le sue idee. Scrisse semplicemente il nome della ragazza che amava, e che avrebbe voluto rivedere: Viola.
Quello che davvero vogliamo tutti è qualcosa o qualcuno per cui valga la pena stare in classe. Ieri ho chiesto ad alcuni miei alunni per quale motivo fossero a scuola. Non posso più scordarmi gli occhi celesti di Vittoria: «Per lei, prof». «Veramente?» ho incalzato. Il suo silenzio imbarazzato era segno di sincerità. Aveva un motivo per non svendersi al niente. Il che non significa che io sia bravo, ma testimonia che razza di responsabilità abbiamo, quanta domanda ci viene addosso da quegli occhi. Cosa saremmo con 50 euro o 10 computer in più ma senza gli occhi di Vittoria? Che motivo avremmo per entrare in classe ogni mattina?